Del: 11 Maggio 2014 Di: Bianca Giacobone Commenti: 1

Il 15 aprile, attorno alla mezzanotte sono state sequestrate 276 studentesse tra i quindici e i diciotto anni da una scuola nella città di Chibok, nel nord est del Borno, Nigeria. 53 ragazze sono riuscite a fuggire. Poco si sa della sorte delle restanti 223.

La scuola era stata chiusa, assieme a molte altre della zona, nel mese di marzo a causa dell’aumento di attacchi da parte di vari gruppi fondamentalisti armati, che hanno ucciso centinaia di studenti nell’anno passato. Tuttavia molte studentesse erano state richiamate nella scuola di Chibok – ritenuta dalle autorità relativamente più sicura – per sostenere gli esami finali.

L’attacco è stato rivendicato dal gruppo di estremisti islamici Boko Haram, dicitura che in lingua locale Hausa significa “l’educazione occidentale è proibita”. Il gruppo Boko Haram è stato fondato nel 2002, ed è attivo nel nord est del Paese dal 2009. Costretti dall’esercito a lasciare il loro principale centro urbano a Maiduguri, il gruppo si è ritirato nella vasta foresta Sambisa, dove ha fatto base e dove dovrebbero trovarsi oggi le ragazze rapite.


Obiettivo del Boko Haram, nominalmente alleato di Al Qaeda, è rovesciare il governo nigeriano, governo di infedeli, per istituire uno stato islamico che segua quella versione dell’Islam che vieta ai fedeli di essere contaminati, politicamente o socialmente, dalla cultura occidentale.
I divieti comprendono, tra le altre cose, votare alle elezioni, indossare magliette o pantaloni e ricevere un’educazione laica. È soprattutto quest’ultimo l’obiettivo nei confronti del quale il gruppo si è mostrato particolarmente aggressivo negli ultimi tempi, attaccando e costringendo a chiudere circa cinquanta scuole soltanto nell’ultimo anno. La novità dell’accaduto sta nel fatto che per la prima volta il Boko Haram si spinge fino al rapimento di studentesse. In occasioni precedenti alcuni studenti maschi erano stati uccisi, ma alle ragazze era stato semplicemente intimato di andare a casa e sposarsi, perché quello è ciò che deve fare una donna – non andare a scuola alla ricerca di un’educazione. È per questo (oltre ovviamente che per oltraggiare il governo) che le 276 giovani donne sono state sequestrate, perché erano in una scuola, nel tantativo di costruirsi una carriera come insegnanti o come medici. Questo lo ha dichiarato il leader del Boko Haram, Abubakar Shekau, nel video rilasciato il 5 maggio, nel quale minaccia di far sposare le ragazze, o di venderle sul mercato come schiave.

È passato quasi un mese dal rapimento e il governo nigeriano si è dimostrato negligente nei tentativi di recupero, scatenando le proteste dentro e fuori dal Paese. 223 ragazze non dovrebbero essere difficili da individuare, ma la foresta Sambisa è folta ed intricata e il nord del Paese sfugge totalmente al controllo dello Stato: l’intero territorio è stato dichiarato in stato di emergenza ed è inutile negare che i militanti del Boko Haram sono spesso meglio armati dell’esercito governativo o delle forze di sicurezza, generalmente poco inclini ad avventurarsi in una zona così ostile. Se non contiamo il disperato tentativo di alcuni genitori, che si sono avventurati nella foresta armati di arco e frecce alla ricerca delle loro figlie, per poi ritirarsi sconfitti, nessuna opererazione di recupero ufficiale è stata lanciata o preparata dal Governo. Il presidente della Nigeria, Goodluck Jonathan, ha rilasciato la prima dichiarazione il 4 maggio, con venti giorni di ritardo sul sequestro, chiedendo l’aiuto degli Stati Uniti e delle altre potenze internazionali per reagire all’attacco: il 9 maggio sono arrivati in Nigeria esperti statunitensi e inglesi per fornire supporto.
Ad alimentare le polemiche sono arrivate anche le dichiarazioni di Amnesty International, la quale sostiene ci siano prove che l’esercito fosse stato informato dell’imminente attacco circa quattro ore prima che fosse effettivamente lanciato — sembra che un pastore avesse contattato un ufficiale locale per fargli sapere che uomini armati gli avevano chiesto dove si trovasse la scuola della città di Chibok.
L’esercito non si sarebbe mosso per paura di scontrarsi con un gruppo di estremisti meglio equipaggiato.
Il governo nigeriano ha smentito la possibilità di una simile accusa ma saranno svolte ulteriori indagini.

Intanto a Londra, a New York, in Canada, in Australia, si manifesta davanti alle ambasciate della Nigeria, e dilaga la campagna di solidarietà sui social network. Da quando l’hashtag #BringBackOurGirls è stato usato la prima volta, il 23 aprile da un avvocato nigeriano, è stato twittato più di un milione di volte. Si sono unite alle campagna online sia la first lady statunitense, Michelle Obama, sia Malala Yousafzai, la studentessa pakistana a cui estremisti talebani hanno sparato in testa per essersi mossa a favore dell’educazione femminile. Malala Yousafzai, che al momento vive a Londra, ha dichiarato che le ragazze rapite sono sue sorelle, invitando la comunità internazionale a fare tutto il possibile per recuperarle.

L’intera vicenda naviga oggi nel torbido e nessuno può dirsi certo sui futuri sviluppi, inclusa la possibilità di far tornare a casa propria 223 studentesse.
La diffusione virale di un hashtag ha mosso migliaia di coscienze in tutto il mondo ma il rischio concreto – come troppo spesso in queste faccende – è che non si vada oltre una solidarietà di facciata, un po’ ipocrita e paternalista, che nulla aggiunge ad un serio dibattito sulla condizione femminile o sul come arginare episodi di violenza inaudita, come quello che tiene in questi giorni banco sulle prime pagine della stampa.
La speranza è che non sia l’ennesima escalation mediatica tramite la quale vendere qualche copia, per poi tornare ad occuparsi d’altro – come se nulla fosse mai accaduto.

Bianca Giacobone
@BiancaGiac
Bianca Giacobone
Studentessa di lettere e redattrice di Vulcano Statale. Osservo ascolto scrivo. Ogni tanto parlo anche. E faccio il mondo mio, poco per volta.

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