
“Inutile e non necessario”
Sono molte le cose che potrebbero essere definite tali, eppure un’Associazione Onlus che lavora nel campo del reinserimento per le persone vittime della tratta e della prostituzione, non rientra in questa definizione. Con questa giustificazione sono state negate le sovvenzioni alla suddetta Associazione, che ha chiesto di rimanere anonima, e che dopo quindici anni di lavoro nella zona sud ovest di Milano, fra autostrade, strade provinciali, vicoli e campagne, nel prossimo giugno chiuderà i battenti.

Licenziati gli operatori, mandati a casa con un “grazie” i volontari, lasciate ai margini dell’asfalto le ragazze, in mano ai loro sfruttatori, ai loro clienti, ai loro guai. In tanti anni di sostegno sono circa 9700 le donne incontrate, alcune solo una volta, altre per anni; di molte gli operatori conoscono l’identità, di diverse solo qualche frammento, il viso, la pelle scoperta e poco più.
Compaiono a qualsiasi ora del giorno e della notte, vi giungono con le proprie automobili, quando le possiedono, o accompagnate da un “Papagiro” — colui che all’interno della tratta si occupa del trasporto della merce: le donne. Il racket è infatti organizzato per livelli gerarchici e mansioni, a seconda delle etnie e della fonte economica maggiore. Il processo parte dalle organizzazioni criminali italiane, che vendono i tratti di strada a quelle dell’est europeo o del nord Africa — le maggiori importatrici. Anche nel caso, rarissimo, in cui fosse la ragazza a scegliere di prostituirsi, non potrebbe mai farlo al di fuori delle briglie del racket, non le sarebbe comunque permesso . Lo stesso sistema che vende le donne spesso finisce per utilizzarle anche come corrieri della droga, le anestetizza trasformandole in tossico dipendenti, consigliando loro qualcosa di diverso dal paracetamolo per l’emicrania.
Le ragazze sono poi strettamente controllate sul lavoro tramite il passaggio di una o più auto vedetta e l’autista non si farebbe certo scrupoli nel comunicare, a chi di dovere, se una donna esitasse nell’accettare clienti o prestazioni. Anche una volta tornate aelle proprie abitazioni, baraccopoli o appartamenti che condividono con altre prostitute o con il loro sfruttatore, non vengono mai perse di vista. Spogliate di documenti e permessi, vengono forniti loro gli abiti da indossare e le regole da rispettare: niente comunicazioni non autorizzate, una cifra minima da portare a casa ogni giorno, presunti debiti da onorare fino all’ultimo centesimo, prima che si possa iniziare a parlare di risparmi e libertà.

L’Onlus le incontra ogni giorno, quando con l’unità mobile di strada traccia il percorso della prostituzione milanese. Ormai quasi tutte le ragazze conoscono operatori e volontari e sorridono quando li vedono arrivare, scendere dall’auto per identificarsi rispetto al cliente tradizionale che non è solito uscire dall’abitacolo, e avvicinarsi con un thermos di caffè caldo.
Gli operatori fanno domande semplici, quasi si rivolgessero a vecchie amiche, “Come stai”, “Come va il lavoro?” e se hanno bisogno di qualcosa.
L’associazione difatti offre visite medico-sanitarie, ginecologiche, analisi del sangue e accompagnamento in casi di aborto, supporto psicologico il tutto ovviamente gratis. Non viene offerta immediatamente una via di fuga, perché spesso sarebbero proprio le ragazze a rifiutarla e chiudere ogni altra comunicazione con gli operatori.
Perché? Cosa le trattiene dal fuggire?
Vi è la paura — la maggior parte di esse sono straniere, provengono dai paesi dell’Est Europa e dalla Nigeria, sono giovani, senza documenti, importate clandestinamente, ma con famiglia e figli a carico nel Paese d’origine. Vengono adescate con gli stratagemmi più subdoli. Due sono i principali: l’amore e la religione.
Nei Paesi del centro Africa viene inviata una Madam, che nei villaggi poveri e rurali stringe patti benedetti con le famiglie delle ragazze, riti antichi, che uniscono pratiche woo-doo oppure jou-jou a promesse di lavoro e denaro, in cambio alla ragazza verrà chiesto di arrivare fino alle coste del nord Africa, autonomamente, e imbarcarsi per l’Italia. Quando riescono ad arrivare sane e salve ai porti, evento tutt’altro che scontato, devono affrontare il viaggio, clandestinamente, e attraccare sulle spiagge italiane; le perdite vi sono ma risultano briciole rispetto al guadagno successivo del racket. Le ragazze giunte in Italia saranno poi prelevate da gregari della tratta e trasportate nel Nord, dove non potranno dire no alla prostituzione, pena una maledizione su di loro e sulla loro famiglia. Per quanto possano dire e fare le operatrici della Onlus è difficile convincere le ragazze che non accadrà nulla di male se lasceranno la strada. Anni di tradizioni e culture sono il più forte ostacolo. Vi è poi la crescita di gruppi religiosi e chiese che operano sul territorio italiano in apparente legalità ma favoriscono lo sfruttamento attraverso presunti pastori che predicando alle ragazze gravate da “debito”, rendendo più facile alle Madam avviare alla prostituzione le nuove arrivate. Tali chiese vivono di donazioni ed offerte anche delle stesse Madam che, attraverso questo sistema, possono ottenere anche prestiti per finanziare il reclutamento di nuove prostitute.
Nei Paesi dell’Est invece sono i “fidanzati” delle ragazze a offrire loro un lavoro in Italia, magari come badanti, baby-sitter o cameriere. Poi una volta raggiunto il Belpaese quegli stessi fidanzati indicano loro la strada come unico mestiere disponibile, pregandole di farlo, giurando che sarà per poco tempo, che anche a loro dispiace, ma non c’è altro lavoro disponibile; qualcosa che è necessario fare in nome dell’amore indissolubile che li lega e che, per la precisione, lega lui a molte altre, attirate nella rete allo stesso modo. Le ragazze accettano, anche se è difficile, fa freddo, fa caldo, c’è la fame e ci sono le violenze, i clienti, le richieste più strane, e fa schifo: questo non lo direbbero mai apertamente alle operatrici della Onlus, a cui sorridono, rispondono alle loro domande in modo tagliente e ironico. Dicono “Ma me li scelgo io i clienti” “Quelli giovani non li voglio, mi fanno perdere troppo tempo” e ridono, raccontano qualcosa di sé, della propria famiglia d’origine, del “fidanzato”. Raramente parlano dei clienti, si lamentano delle richieste, soprattutto di coloro che chiedono di non utilizzare preservativi, mettendo a repentaglio per infezioni da patologie veneree le donne, se stessi, ed eventualmente mogli lasciate a casa o compagne future. Se si avvicina un cliente salutano e vanno via con lui, se un auto passa troppe volte, chiedono alle operatrici di tornare più tardi, o qualcuno potrebbe arrabbiarsi, devono lavorare. Anche gli sfruttatori conoscono la Onlus ma non hanno mai agito contro di essa, perché in fondo preferiscono delle sfruttate in salute, senza gravidanze o malattie eccessivamente debilitanti. La possibilità che scelgano di uscire dalla tratta è comunque molto limitata, principalmente perché con ogni ragazza l’operatore dovrebbe stringere un legame di fiducia che si basi su più incontri, confidenze, consigli, cose che è ben facile sventare per gli sfruttatori, semplicemente spostandole da una strada all’altra, vendendola in zone e quartieri più lontani e facendo scendere l’oblio.

Non è semplice, né immediato, alcune però riescono ad andarsene, magari dopo una brutta litigata con il “fidanzato” o dopo essere tornate per qualche settimana nel Paese d’origine, aver detto a tutti che l’Italia è bella, che il lavoro non è così pesante, aver visto i propri figli cresciuti calmarsi tra le braccia di un’altra donna. Una volta dichiarata la volontà di fuggire, le ragazze vengono portate al Pronto Intervento, una casa sicura in un luogo segreto, condivisa con altre ragazze con storie simili alla loro o vittime di abusi in famiglia. Una volta lì dovranno annullare ogni comunicazione con l’esterno, perché non vengano trovate né loro né le altre, niente telefonate, niente uscite non accompagnate, per alcuni mesi. Non tutte resistono, alcune vogliono tornare da quell’amore che le metteva sulla strada a battere che “È venuto ad accendermi il fuco in strada alle tre e mezzo, poteva stare a casa invece è venuto…mi ama!”. Come contraddirla? Gli operatori lo fanno con dolcezza, a volte litigano, lei grida, si arrabbia, ma sa che hanno ragione, più passano i mesi e più questa consapevolezza si fa lucida.
Gli operatori e i volontari della Onlus, trascorrono molte ore anche nell’operazione “Indoor”, durante la quale contattano telefonicamente i numeri che in Internet o sui periodici offrono ragazze per prestazioni sessuali. Sono spesso telefonate infruttuose, a volte le ragazze fanno cadere la linea appena si accorgono che non si tratta di un cliente o rispondono che non sono interessate, che hanno sbagliato numero che “mica faccio quel lavoro lì”! Altre volte però stanno ad ascoltare, accettano l’invito a prendere un caffè. È più difficile dare fiducia usando solo voce e parole. È più facile convincersi che la prostituzione non è poi tanto male.
Quale pezzo di questa storia può essere definito “Inutile e non necessario”? Quale di queste mansioni?
C’è da chiederlo alle ragazze che se ne sono andate, quelle che hanno curato malattie trasmesse da un cliente italiano o straniero che le ha pagate di più per un rapporto senza protezioni, allo sfruttatore che ha fatto loro un regalo quando hanno portato a casa quel poco di denaro in più. Soprattutto però sarà necessario chiederlo a quelle che senza questa Onlus continueranno a stare ai margini delle strade ad aspettare il prossimo cliente e la fine di un’altra giornata. Sole.
@GiuliaAlice1
Photo credit CC Francesca Launaro, Pier Paolo Cito