Settimana scorsa il ministro Giannini ha presentato la bozza della riforma scolastica del suo governo. Le proposte includono l’aumento dell’orario dei docenti da 25 a 36 ore e la progressiva apertura degli istituti oltre le 16:30 fino alle 22:00; la riduzione delle scuole superiori da 5 a 4 anni; le supplenze brevi affidate a docenti dell’istituto e non a supplenti precari; un aumento del 30% sugli stipendi dei docenti che accettano di svolgere straordinari qualificati (soprattutto nell’ambito dell’informatica) e infine l’abolizione delle graduatorie d’istituto e del TFA.
Subito si è scatenata la polemica. Sindacati e associazioni di insegnanti si sono schierati con forza contro le proposte del Ministero che dopo appena qualche ora ha fatto marcia indietro, smentendo in particolare la questione degli aumenti di orario e facendo notare come il disegno di legge sia ancora in fase di elaborazione, garantendo che prima dell’approvazione ci sarà una fase di dialogo con le parti sociali in causa.
L’ennesima riforma scolastica è stata bocciata preventivamente da di chi lavora nella scuola soprattutto perché, come le precedenti, è stata vista come una riforma di stampo economicista, approntata solo per risparmiare e tagliuzzare le spese in modo più o meno mascherato. Riguardo agli aumenti ai docenti, ad esempio, si è proposto di aumentare gli stipendi solo a chi è disponibile a sobbarcarsi dei ruoli organizzativi ed extracurricolari specializzati all’interno dell’istituto. Gli altri non riceverebbero alcuno scatto salariale nonostante a marzo il ministro avesse dichiarato, sostenuto dal governo, che gli aumenti degli stipendi di tutti gli insegnanti fossero una priorità dell’esecutivo. Nota bene: gli insegnanti italiani sono tra i meno pagati d’Europa — nella sua carriera un insegnante italiano può raggiungere un compenso massimo di 39.000 euro, mentre un suo collega tedesco parte da un minimo di 48.000. E’ un problema annoso a cui non si riesce a mettere mano in via definitiva, e i contratti sono fermi dal 2009. L’anno scorso, addirittura, sembrava che chi avesse ricevuto lo scatto di anzianità di 150 euro previsto per il 2012 dovesse restituirlo allo stato con delle trattenute, ma la questione era rientrata.
Questa proposta offre almeno un’opportunità di guadagno, ma il modo in cui lo fa è discutibile. L’entità dell’aumento verrebbe per esempio decisa dal preside dell’istituto in base a criteri di giudizio soggettivo — non il massimo della trasparenza. Inoltre, un aumento sarebbe necessario e doveroso per tutti, mentre la possibilità di svolgere mansioni extra è in pratica già preclusa ai docenti che hanno molte ore in molte classi o il cui lavoro a casa – ad esempio di correzione compiti – porta via molto tempo, come nel caso dei docenti di matematica e italiano.
Entriamo qui nel punto forse più dolente della proposta, che non a caso è già stato parzialmente ritrattato: l’aumento dell’orario di lavoro settimanale. E’ un pregiudizio diffuso che gli insegnanti italiani lavorino poco. In realtà i loro orari medi sono sostanzialmente in linea con quelli dei colleghi europei. Inoltre, il lavoro di un insegnante non si esaurisce nelle ore in classe ma – come appena accennato – continua a casa con la preparazione delle lezioni e dei compiti e della correzione di quest’ultimi, per non parlare di scrutini, consigli di classe o esami, che per i docenti con molte classi possono lievitare a dismisura.
Gli insegnanti verrebbero anche chiamati a svolgere le supplenze fino ad ora affidate a precari esterni, appesantendo così il proprio carico orario e togliendo opportunità di lavoro ai precari che navigano nel ventre della balena scolastica sperando di approdare ad un assunzione.
I provvedimenti proposti di certo non li favorirebbero: oltre a quello appena citato, si parla di un’abolizione delle graduatorie d’istituto in cui orbitano più di 400 mila precari il cui destino diventerebbe ancora più incerto. Non è uno scenario roseo per una categoria che è stata ignorata e/o martoriata per anni, per cui sarebbe auspicabile una soluzione più incisiva dell’ennesimo glissare.
I precari si vedrebbero ridotte le possibilità di assunzione anche se andasse in porto il disegno (pazzesco) del taglio di un anno scolastico. Questo taglio maximo, finora, non era ancora stato proposto. Fosse accompagnato da una radicale revisione della concezione didattica — riflessione questa sì davvero auspicabile ma della quale in nessuna riforma si è mai parlato — se ne potrebbe discutere; ma così pare davvero un colpo di mannaia a un diritto garantito dalla Costituzione come quello allo studio.
Il governo si è mosso dunque, come sembra voler fare in molti campi; ma attivismo non è sinonimo di riformismo né tanto meno di efficacia. Anche sul piano degli investimenti per la ristrutturazione delle scuole, si è soprattutto intervenuto sbloccando i fondi del patto di stabilità. Certo, è un inizio, ma di contributi diretti se ne sono visti pochi. Inoltre, nonostante le garanzie di dialogo, il governo parrebbe pronto a usare lo strumento del decreto legge per approvare la riforma entro la fine dell’estate, in ossequio all’ipercinesi che accompagna il partito di maggioranza (che pure in passato si era opposto all’abuso di questo strumento semi coercitivo) e l’esecutivo.
Per finire, una proposta potenzialmente costruttiva ma molto difficile da realizzare senza investimenti (e all’orizzonte non se ne vedono): l’apertura progressiva e serale delle scuole. Sarebbe interessante e offrirebbe molte opportunità alle famiglie, agli studenti e ai professori stessi se non fosse che già oggi molte amministrazioni locali pregano o ingiungono alle scuole di chiudere anche il sabato almeno durante gli inverni per risparmiare sul riscaldamento. E’ tempo di magra. E i ragazzi devono andare a letto presto, tenendo a mente la dichiarazione del sottosegretario Roberto Reggi: «Il sistema di istruzione non dovrà più assumere il ruolo di ammortizzatore sociale».
Speriamo che assuma un ruolo didattico.
Stefano Colombo
@Granzebrew