Del: 22 Luglio 2014 Di: Maria C. Mancuso Commenti: 1

L’altro giorno sono stata ad un matrimonio di due amici in Toscana e, tra un bicchiere di Chianti e l’altro, contemplando vassoi ricchi di pietanze squisitissime, mi sono chiesta: ma di tutto questo cibo, quanto ne verrà consumato, e quanto invece finirà nel cestino? Quando il menù è scelto da qualcun altro – si sa – è sempre difficile soddisfare i gusti di tutti: chi la vuol cotta, chi la vuol cruda, insomma, spesso e volentieri qualcosa rimane nel piatto.

Ma una ciliegia tira l’altra, e tra un crostino ai funghi e uno al pomodoro, ho provato a pensare anche alla quantità di cibo sprecato dentro le mura di casa. Quante volte a settimana siamo obbligati a svuotare il contenitore dell’umido?

Facendo qualche ricerca ho scoperto che, secondo i dati dell’Associazione per la Difesa e l’Orientamento dei Consumatori, in Italia sprechiamo il 35% dei prodotti freschi, il 19% del pane e il 16% di frutta e verdura. Waste Watcher, l’Osservatorio internazionale dell’Università di Bologna, ha rilevato inoltre che il 25% della spesa finisce nella spazzatura: 76 chilogrammi di prodotti alimentari annui pro capite.

Nel 2011 Luca Falasconi, ricercatore presso la Facoltà di Agraria dell’Università di Bologna e docente di Politica agraria e sviluppo rurale, assieme ad Andrea Segré, professore ordinario di Politica agraria internazionale e comparata e presidente della Facoltà di Agraria dell’Università di Bologna, hanno pubblicato “Il libro nero dello spreco in Italia: il cibo”, nato in seno al progetto “Un anno contro lo spreco” promosso da Last Minute Market, società spin-off dell’Università di Bologna che si occupa del “recupero di beni invenduti (o non commercializzabili) a favore di enti caritativi”.

Secondo i due studiosi, ogni anno nel nostro Paese, durante il percorso che va dai campi alle tavole, cioè durante la cosiddetta filiera agroalimentare, si butta una quantità di cibo talmente ingente da poter soddisfare ogni anno il fabbisogno alimentare di 44.472.914 abitanti.

Ad ogni modo, in che cosa consiste la filiera agroalimentare?
La prima fase annovera tutte le attività connesse alla coltivazione e alla produzione agricola – qui le perdite sono causate principalmente dalle intemperie climatiche, dalle malattie e dalle infestazioni. Include inoltre la fase del raccolto, dove l’immagazzinamento e il trasporto di frequente danneggiano i prodotti più deteriorabili.

La seconda fase invece interessa la trasformazione, dove lo sperpero di risorse è dato dalla lavorazione alimentare. Abbiamo poi la terza, di grande rilevanza, che consiste in tutte le attività connesse alla distribuzione all’ingrosso o al dettaglio durante la quale lo spreco deriva da normative, canoni estetici – spesso e volentieri le verdure brutte restano invendute – strategie di marketing e logistica.

La quarta ed ultima fase riguarda infine ciò che ha mosso inizialmente la mia curiosità: il consumo finale, cioè la fase che interessa più da vicino le nostre abitudini e che dipende quindi più strettamente da noi.

Sarà anche vero che l’appetito vien mangiando, ma anche i nostri grossi pancioni occidentali hanno un limite: quante volte capita al ristorante che le porzioni servite siano eccessive? E quante le volte al supermercato si comprano prodotti superflui? E’ facile aggiungere ulteriori acquisti a quelli necessari presenti nella lista della spesa, che però spesso e volentieri sono freschi e a breve scadenza (raramente verificata prima dell’acquisto).

L’ammontare di tutti gli sprechi presenti in questa catena è secondo un articolo del Sole24ore di 13 miliardi di euro annui.
Per quanto riguarda invece l’ultima fase, secondo il Rapporto 2013 sullo spreco alimentare domestico realizzato da Waste Watcher, gli italiani sprecano ogni anno sprecano 8,7 miliardi di euro, circa 7 euro settimanali a famiglia – soldi che si potrebbero spendere sicuramente in attività più interessanti.

Perché si spreca?
Il motivo principale, secondo il report del WWF “Quanta natura sprechiamo”, pubblicato nel 2013, è la poca consapevolezza in materia di risorse che l’opulenza dell’ultimo cinquantennio ha inevitabilmente comportato: abbiamo la presunzione di credere di avere a nostra disposizione un’illimitata quantità di acqua, suolo ed energia.
Il cittadino medio, quando butta nel cestino una bistecca, non sa che, secondo il NEIC (Nutritional Ecology International Center), per produrre un solo chilogrammo di carne si consumano ben 15 chilogrammi di vegetali. Ma non basta: per allervare il capo di bestiame serviranno grandi distese di terreno (l’88% della foresta amazzonica è stata abbattuta a questo scopo) e per quei vegetali si impiegherà, oltre al suolo, moltissima acqua. Infine, non contando la quantità di pesticidi che probabilmente verranno utilizzati con gravi danni alla terra, alla biodiversità e a noi consumatori, si impiegherà anhce una considerevolissima quantità di energia, che spessissimo deriverà da fonti non rinnovabili e inquinanti, e che sarà utilizzata non solo per lavorare il terreno ma anche per il trasporto del mangime e della carne stessa.

Per gli italiani, a parte rari casi, accedere a cibo e acqua potabile è diventato a partire dal boom economico sempre più scontato: il passo che porta a dissipare è estremamente breve – è lo stesso che ci fa pensare che lasciare aperto il rubinetto mentre ci laviamo i denti non possa avere alcuna conseguenza.

Tuttavia, senza esultare troppo, a causa della crisi economica degli ultimi anni, lo spreco nel nostro paese si è ridotto del 57% – calo accompagnato chiaramente da una drastica diminuzione dei consumi dei beni primari.

Cosa possiamo fare dunque per evitare gli sprechi?
Ai matrimoni degli amici l’unica cosa da fare è ingozzarsi fino a scoppiare, tornando a casa rotolando, ma con la consapevolezza di aver fatto “la cosa giusta”.
Al ristorante, e in generale in tutti i locali pubblici dove si possono consumare pasti, bisogna sicuramente evitare di ordinare troppo, soprattutto se non si è sicuri di riuscire a finire tutto, e nel caso, perché no, chiedere al cameriere di portare a casa gli avanzi nelle apposite doggy bags di cui tutti i ristoranti ormai si stanno fornendo.
A livello domestico invece è sempre utile fare una lista della spesa – e ovviamente cercare di comprare soltanto ciò che è scritto, senza farsi allettare troppo da offerte 3X2 che riempiono i carrelli prima e il bidone dell’umido poi.
Bisogna poi stare attenti a non acquistare troppi prodotti freschi e a leggere la data di scadenza – anche qui, non bisogna seguirla in maniera categorica, per quasi la totalità dei cibi è solamente indicativa, per capire se l’alimento è ancora commestibile basta semplicemente annusare o assaggiare.
Ovviamente si dovranno scegliere possibilmente prodotti a chilometro zero, o comunque coltivati o allevati in Italia, e di stagione – i pomodori a dicembre non si possono mangiare, fatevene una ragione.
Seguendo invece i consigli della nonna, si possono imparare tanti piccoli trucchi per usare gli scarti e gli avanzi (altrimenti si possono trovare tante ricette anche qui)

Sicuramente quello che possiamo fare noi è tanto, ma non abbastanza: come si stanno muovendo allora le istituzioni per evitare questo enorme spreco? Quali sono i progetti più interessanti? E soprattutto: cosa sta facendo Milano, in vista dell’Expo2015 che ruota proprio attorno al tema dell’alimentazione?
Ne discuteremo nel prossimo articolo.

Maria C. Mancuso
@MariaC_Mancuso
Maria C. Mancuso
Scrive di agricoltura, ambiente e cibo. Mal sopporta chi usa gli anglicismi per darsi un tono.

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