Del: 8 Luglio 2014 Di: Marta Clinco Commenti: 0

È di pochi giorni fa la notizia per lo più taciuta nel nostro Paese secondo cui in Zimbabwe ben 100.500 bambini affetti da HIV/AIDS non hanno accesso ai farmaci antiretrovirali necessari a combattere il virus ed il suo decorso, che consiste nel logorìo progressivo del sistema immunitario del soggetto, e in una serie di terribili conseguenze: infezioni opportunistiche causate da patogeni come batteri, virus, funghi e protozoi a livello neurologico, polmonare e gastrointestinale. Il rischio di sviluppare alcuni tipi di tumore (Epstein-Barr, Sarcoma di Kaposi, Papillomavirus, linfoma di Hodgkin, tumore ai polmoni e diversi carcinomi) aumenta rapidamente con il deterioramento e la compromissione del sistema immunitario dell’individuo infetto. I dati raccolti negli ultimi anni dicono che, grazie all’avvento dei nuovi farmaci antiretrovirali in grado di inibire la moltiplicazione di HIV e ripristinare in parte il sistema immunitario, sia l’aspettativa che la qualità della vita delle persone sieropositive sono di molto migliorate, avvicinandosi a quelle della popolazione sana.

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Questo forse avviene in Europa, in Nord America; di certo non avviene in Africa, in Zimbabwe. Come affermato dalla dott. ssa Angela Mushavi (Coordinatrice nazionale del trattamento di PMTCT e HIC pediatrica presso il Ministero della Salute), è determinante in questo senso la mancanza di personale specificamente qualificato, in grado dunque di somministrare in modo corretto quella che è una terapia molto complessa, dalla prassi particolarmente delicata. La maggior parte dei bambini viene sottoposta al test HIV solo quando ha ormai da tempo contratto il virus – magari per trasmissione da una madre spesso inconsapevole, ancor prima del parto – e le condizioni di salute risultano già irrimediabilmente compromesse. Un nuovo trattamento, l’Option B plus, agisce per combattere il contagio madre-figlio tramite la somministrazione di farmaci antiretrovirali anche prima del parto.

Tuttavia resta necessario fare un passo indietro e parlare di prevenzione, iniziare a farlo davvero; forse è superfluo precisare che un piano organizzato a riguardo è sostanzialmente inesistente, ma è necessario trovare soluzioni che portino risultati migliori. «Speriamo solo che la situazione non peggiori, che il numero di morti non aumenti»: ma non può essere, non deve essere questo il “meglio” cui mirare e in cui sperare. In queste zone – e nell’Africa subsahariana tutta, a differenza di Europa e America settentrionale – le fasce più delicate e dunque più colpite dal virus sono quella infantile, quella che comprende le donne incinte e quella delle donne in allattamento, giacché – come le malattie in genere – la sua distribuzione rispecchia quella dei gruppi sociali più vulnerabili e a rischio. Ma è impossibile garantire un’assistenza preventiva laddove siano assenti sia mezzi che risorse primarie, sia personale medico qualificato che farmaci e cure. Il dramma si consuma soprattutto nelle aree rurali, ma non solo: pochissimi sono i centri attrezzati – in termini di risorse umane e igienico-sanitarie; di qui l’estrema difficoltà nel trovare ospedali in cui sia possibile ricevere la terapia ART (Antiretroviral Therapy) o HAART (Highly Active Antiretroviral Therapy). Infatti, attualmente, solo due centri in tutto lo Zimbabwe – uno situato a Mpilo, l’altro a Harare – risultano in possesso dei macchinari necessari alla centrifugazione e all’analisi dei campioni di sangue che lì giungono ogni giorno da ogni parte del Paese, e dai quali sono oberati e sopraffatti.

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In Italia e nei Paesi occidentali in genere, i numeri mostrano risultati più confortanti, ma di certo non buoni quanto potremmo aspettarci.
Negli anni ’80 la diffusione del virus era legata principalmente sia ad una sessualità mal gestita – per mancanza di corretta informazione a riguardo – sia al crescente abuso di droghe associato a comportamenti igienici scorretti.

Oggi, quasi per paradosso, il problema fondamentale è il tabù legato alla malattia, che ha origine in quegli anni, e che continua ad essere stigma sociale, motivo di discriminazione, disagio e vergogna per il malato.

E se negli anni ’80 c’era effettivamente una profonda paura di un virus fino ad allora sconosciuto, dal momento che non erano ben chiare neppure ai medici quali fossero le specifiche modalità di trasmissione, questa poteva essere in qualche modo motivata. Oggi questo tipo di paura – nel tempo radicata in tabù, stigma, discriminazione – persiste, ma non è perdonabile, né giustificabile, perché da imputare ad un’ignoranza che, tra le altre cose, colloca ancora erroneamente l’HIV all’interno di determinate categorie sociali (omosessuali, tossicodipendenti), oltre che alla mancanza di campagne di informazione riguardo il virus e la sua trasmissione.

L’AIDS era ed è tuttora una tragedia non ignorabile, anche qui — benché ci si ostini a considerarlo un problema legato solo all’Africa e a determinate aree del pianeta, benché il numero di contagi annui lentamente diminuisca, benché ora se ne parli così poco, benché siamo sostanzialmente convinti sia un problema che non ci riguarda — perché ogni contagio è una sconfitta. Ma, soprattutto, non bisogna averne paura. Dal virus ci si può proteggere e, anche se non è possibile guarire, è possibile invece curarsi: condurre una vita certo non priva di difficoltà, ma comunque dignitosa, “normale”, grazie alle ultime terapie all’avanguardia. Qui è possibile, ma anche nello Zimbabwe dovrebbe essere garantito lo stesso diritto.

Marta Clinco
@MartaClinco

Marta Clinco
Cerco, ascolto, scrivo storie. Tra Medio Oriente e Nord Africa.

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