Del: 27 Agosto 2014 Di: Sebastian Bendinelli Commenti: 0

Il 26 agosto 1903, nella sala concerti del Casinò di Basilea, si sta svolgendo il sesto Congresso internazionale sionista. All’ordine del giorno c’è una questione spinosa: il governo inglese ha offerto una parte dell’Uganda, dominio coloniale britannico, per l’insediamento dello stato ebraico. L’atmosfera è infiammata e il Congresso si spacca. Per la prima volta viene messa in discussione la leadership di Theodor Herzl, che presiedeva l’assemblea sin dal 1897 e che del movimento sionista era padre fondatore. I rappresentanti delle comunità ebraiche dell’Est europeo e della Russia, in particolare, accusano i capi “occidentali” del movimento di essersi lasciati manovrare dal gioco delle diplomazie europee. Non tollerano che alla Terra Promessa si sostituisca l’Uganda. Durante la pausa, una donna sale sul palco e lacera la cartina dell’Africa che è stata appesa al muro, significativamente, al posto di quella della Palestina. Quando è il momento di votare, però, la proposta inglese viene accolta, 295 voti contro 177, e viene disposto l’invio di una spedizione esplorativa in Uganda per giudicarne le condizioni di fattibilità.

Herzl è spossato e amareggiato. Tormentato da una salute sempre debole, aggravata da sette anni di febbrile attività politica e diplomatica, presagisce la morte che l’avrebbe colto di lì a pochi mesi. Si sforza tuttavia di scongiurare la scissione, che avrebbe condotto il movimento a un fallimento certo. Rassicura i delegati orientali: la Palestina non è abbandonata, solo momentaneamente rimandata. L’Africa sarà per il popolo ebraico un rifugio momentaneo: una via più lunga, più tortuosa, ma che conduce sempre a Sion.

Eppure lo stesso Herzl, nel pamphlet da cui derivavano la sua fama e autorità, aveva già prospettato, per la fondazione del futuro stato ebraico, una doppia alternativa: Palestina o Argentina. La prima per ovvie ragioni storiche e religiose; la seconda in quanto terra ricca, ampiamente disabitata e già meta di una consistente emigrazione ebraica. Lo stato ebraico (Der Judenstaat) era stato scritto nel 1896 sull’onda dell’indignazione per l’affaire Dreyfus, di cui Herzl era stato testimone oculare in qualità di corrispondente da Parigi per il quotidiano viennese Neue Freie Presse. La soluzione “africana”, invece, si affacciava all’indomani di un episodio ancor più grave e certo più sanguinoso, che aveva scosso nel profondo la coscienza delle comunità ebraiche d’Europa: il pogrom di Kishinev, Bessarabia, in cui quarantasette ebrei erano rimasti uccisi e oltre cinquecento feriti. Di fronte al crescente antisemitismo, che nella Russia zarista era assurto a sistematica strategia politica, occorreva, secondo Herzl, una soluzione in tempi brevi, quale che fosse.

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Le trattative negli anni precedenti erano andate immancabilmente frustrate. Herzl aveva dovuto scontrarsi con la sordità (o la falsa accondiscendenza) delle cancellerie europee e, allo stesso tempo, con lo scetticismo di molti ebrei influenti. Presto scartata l’opzione argentina, il Congresso sionista, inaugurato nel 1897 come un vero e proprio parlamento senza stato, si era concentrato sulla Palestina. Qui esistevano già da tempo alcuni insediamenti ebraici di poca entità. Verso la fine del secolo, gli acquisti di terre si erano fatti più frequenti e l’emigrazione era aumentata. Herzl però rifiutava la logica dell’infiltrazione graduale. La sua intuizione prevedeva la necessità di una sanzione ufficiale da parte di un potere politico che desse piena legittimità alla futura indipendenza dello stato e permettesse un’emigrazione di massa alla luce del sole. Per questo già subito dopo la pubblicazione di Der Judenstaat aveva iniziato a cercare ovunque appoggi diplomatici, sfruttando le trasferte giornalistiche: Londra, Berlino, Costantinopoli. Prima deriso come un venditore porta a porta, poi, forte dell’importanza che andava assumendo il Congresso di Basilea, ricevuto con tutti gli onori da duchi tedeschi, ministri inglesi e perfino dal kaiser di Germania Guglielmo II.

Ma la Palestina era sotto il controllo dell’Impero Ottomano, e convincere il sultano Abdul Hamid II a stendere una Carta che la consegnasse formalmente all’organizzazione sionista si rivelò presto un’impresa impossibile. Herzl si era recato a Costantinopoli una prima volta nel ’96, ma, dopo una serie di frustranti rimpalli tra un dignitario e l’altro, non era riuscito ad ottenere udienza dal sultano. Vi tornò nel 1901 con l’intercessione del kaiser. L’Impero Ottomano era in disfacimento, minato quotidianamente dalle guerre interne e dagli intrighi di corte. Herzl, in cambio della Palestina, offriva al sultano di risanarne le finanze dissestate, ma Abdul Hamid, ostinato a preservare un’effimera integrità territoriale, che già vacillava sotto i colpi delle potenze coloniali e che presto si sarebbe completamente dissolta, avanzava la richiesta palesemente esagerata di cinquanta milioni di franchi. La banca istituita dal secondo Congresso nel 1898 era riuscita a raccoglierne, faticosamente, solo sette. Aveva pesato la mancata sottoscrizione dei Rothschild, che pure finanziavano largamente gli acquisti di terreni privati in Palestina. Il barone Edmund, consultato da Herzl a Parigi, non era rimasto impressionato dai piani del giovane visionario. Temeva una recrudescenza dell’antisemitismo e preferiva seguire la strada, battuta dalla maggior parte delle più ricche famiglie ebree, della semplice filantropia.

Più tardi, nel 1902, fu un altro Rothschild a prospettare una via d’uscita dall’impasse in cui il movimento sionista sembrava essersi bloccato. Nathan Mayer, il barone inglese artefice della maggior parte della fortuna familiare, si era mostrato più aperto alle proposte di Herzl, e gli aveva procurato un incontro con il potente ministro delle Colonie inglese Joseph Chamberlain. Pare che fosse proprio Nathan Mayer a suggerire per primo l’Africa Orientale come possibile soluzione. La prima proposta di Chamberlain riguardava in realtà il Sinai, che sarebbe stato molto più accettabile sul piano storico e religioso; ma si dovette presto scartare per l’eccessiva siccità. Il distretto Uasin Gishu (che si trova nell’attuale Kenya occidentale, non in Uganda) presentava invece clima mite e fertile vegetazione. L’area, di 13 mila chilometri quadrati, avrebbe potuto accogliere cinque milioni di coloni.

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Herzl non intendeva precludersi nessuna via. Mentre parlamentava con Chamberlain, e ancora sperava di far breccia nel sultano, intavolava trattative con le altre cancellerie del continente per le concessioni territoriali più disparate: Congo belga, Mozambico portoghese, Libia italiana. Preoccupato dalla crescente violenza anti-ebraica che interessava l’Est europeo, sembrava preda di una febbre frenetica. Nello stesso 1903 non esitò a visitare l’impero zarista per incontrare, tra gli altri, il ministro dell’Interno von Plehve, che del pogrom di Kishinev era stato molto più che indirettamente complice. Le masse ebraiche che vivevano in miseria nei ghetti dell’ex-Polonia lo accoglievano come un re, o un messia, ma l’incontro con von Plehve avrebbe incrinato ulteriormente il rapporto già difficile con i sionisti russi.

Il mondo imbevuto di nazionalismi e segnato dalle guerre coloniali in cui si muove l’attività di Herzl è un mondo profondamente diverso da quello che, cinquant’anni e due guerre mondiali dopo, avrebbe visto ufficialmente la nascita dello Stato di Israele. Collocare il sionismo nella sua giusta dimensione storica aiuta a comprendere molti dei problemi successivi. Herzl era un uomo dell’Ottocento, borghese, perfettamente inserito nella realtà politica contemporanea. E benché il ritorno del popolo ebraico in Palestina fosse inevitabilmente investito di un significato religioso più o meno esplicito, il sionismo fu pensato dal suo fondatore come movimento eminentemente politico e laico. Herzl stesso aveva con la religione un rapporto ambiguo, sconfinante nell’ateismo, e per questo dovette affrontare un vasto fronte di critici interni: da un lato gli ebrei ortodossi, che rifiutavano una simile forzatura della provvidenza divina — il popolo ebraico sarebbe ritornato in Palestina solo con la venuta del messia — e dall’altro i fautori di un sionismo “culturale” piuttosto che politico, che accusavano Herzl di non sottolineare adeguatamente l’identità ebraica del futuro stato; a questi si aggiungevano gli ebrei socialisti, che vedevano nel Congresso di Basilea una replica dei parlamenti liberali borghesi, associavano la liberazione del popolo ebraico a quella di tutte le masse oppresse e non perdonavano a Herzl l’eccessiva compromissione con la diplomazia europea fatta di sotterfugi e ciniche contrattazioni.

Diplomazia che invece sembrava a Herzl l’unica via percorribile. Ebreo ungherese trapiantato a Vienna, Herzl era uno spirito inquieto, diviso tra sogni di grandezza e anonima attività giornalistica, frustrato da velleità letterarie mai pienamente appagate e insoddisfazioni matrimoniali. Dopo la pubblicazione di Der Judenstaat aveva consacrato definitivamente la propria vita alla causa politica e si era ritrovato a capo di un movimento tanto vasto e difficile da governare.

Sfibrato dalle polemiche, negli stessi anni di Kishinev e della soluzione ugandese aveva deciso di tornare alla letteratura per dare voce alla propria utopia, pubblicando il romanzo Altneuland, in cui è descritto uno stato ebraico in Palestina incredibilmente simile a ciò che Israele sarebbe storicamente diventato: laico, moderno, tecnologicamente avanzato. Nella visione di Herzl, però, non c’è conflitto: arabi ed ebrei vivono in armonia e professano la propria religione in piena libertà, entro i confini di un unico stato.

Su questo spiccato laicismo si appuntarono le critiche degli strenui difensori dell’identità ebraica, che tuttavia si mostrarono anche più realisti nel presagire la difficoltà di una convivenza pacifica con le comunità arabe palestinesi. Herzl sottovalutò sempre l’impatto che l’emigrazione di massa avrebbe potuto avere sulle popolazioni autoctone, in Palestina come in Uganda o in Argentina. Ma non si trattava tanto di utopismo e di fiducia nell’umana bontà, quanto piuttosto di adesione agli schemi mentali del colonialismo, gli stessi che avrebbero spinto gli inglesi a sottovalutare lo stesso problema un quindicennio più tardi.

Nonostante il violento dibattito che la proposta ugandese aveva suscitato, la spaccatura tra le due anime del sionismo non si consumò mai ufficialmente. Prevalsero le ragioni dell’unità. E la stessa ipotesi di un Israele in Africa si risolse in nulla, quando la spedizione esplorativa tornò dall’Uganda descrivendo un territorio ostile e difficilmente accessibile. L’offerta inglese fu allora definitivamente declinata dal settimo Congresso, nel 1905. Proprio in quell’occasione Theodor Herzl aveva programmato di rassegnare le proprie dimissioni, ma non fece in tempo: morì nel luglio del 1904, a soli quarantaquattro anni.

Hannah Arendt ne Le origini del totalitarismo, nota: “La storia ebraica offre l’eccezionale spettacolo di un popolo che fin dai suoi primi passi ha una chiara idea della storia, in ogni caso un piano ben definito di quel che intende attuare sulla terra, e che, dopo il fallimento di questo piano, si astiene da qualsiasi azione politica per duemila anni”. In altre parole, il popolo ebraico è stato forse il primo a sviluppare un’idea di nazione incredibilmente prossima a quella moderna, con quasi tre millenni di anticipo, ma uno degli ultimi a realizzarla politicamente. All’intraprendenza di Herzl si deve l’avvio del processo storico che avrebbe risolto questo apparente paradosso (che ha ovviamente precise ragioni storiche, politiche, religiose). Meno di cinquant’anni dopo la sua morte, sarebbe nato ufficialmente lo Stato di Israele. Ma l’utopia di Altneuland è quantomai lontana.

Sebastian Bendinelli
@se_ba_stian

Sebastian Bendinelli
In missione per fermare la Rivoluzione industriale.

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