Inizio, alba. Sebbene sia netto
il contorno qui delle cose d’uso,
il ritrovamento non è scontato.
Forse per qualche buco della valle
o nel frigo lì della casa estiva
sta il documento certo del disperso
accartocciato in un breve rimpianto.
Sessant’anni e mi torna la storia,
tra scarpe ai piedi e passi nel capo:
in giro, tutt’attorno all’emicrania.
“Identità” è un termine dalla definizione sfuggente. Non di rado, e ancora più spesso in questi tempi bui e segnati dalla paura del diverso, essa si delinea solo in forma negativa — come ciò che può essere sottratto, negato, stravolto. Ma l’essenza dell’identità, questa estrema coerenza che pure appare così necessaria, continua a sfuggire.
Ma probabilmente “identità” non è altro che un termine vuoto di significato, perché al limite non indica altro che un continuo acquisire, perdere, divenire.
David Hume disse che l’Io non è altro che un fascio di percezioni.
Francesco Guccini, che mette sicuramente molto meno in soggezione, disse riguardo a sé che “tutto quel che posso dire è che cambio un po’ ogni giorno, è che sono differente”.
Adelio Rigamonti, che – per quanto mi riguarda – mi mette sì in soggezione, ma non più di quanto possa farlo un burbero vicino di casa, mostra che l’esistenza di un Io non è fatta d’altro che di un continuo spargersi.
Lo sparso, fresco di stampa presso ExCogita Editore, è quello che il suo autore, il già citato Adelio Rigamonti, chiama un “romanzo in versi”. Si tratta infatti di una narrazione lirica in versi, per lo più endecasillabi sciolti, suddivisa in un’introduzione, cinque libri e una conclusione. I libri sono inoltre suddivisi in tre successioni di un coro (due quartine che introducono l’argomento), una sequenza (ognuna composta da sei raggruppamenti di due strofe di dieci endecasillabi l’una) e un canto tematicamente conclusivo, di metro più vario rispetto al resto — essendo formato da tre strofi di cinque versi ciascuna e da una terzina finale, i cui versi sono endecasillabi o settenari, senza uno schema fisso. L’introduzione è formata da una sola di queste successioni, mentre la conclusione è un caso più particolare, essendo composta da dodici dei suddetti raggruppamenti di strofe endecasillabiche.
Come si nota dalla forma metrica, l’opera si rifà da un lato a forme tradizionali, classiche; ma è d’altronde evidente già nell’ossimorica espressione “romanzo in versi” che ciò che la caratterizza è questo rapporto dialettico tra classicità e contemporaneità.
L’opera cerca di far coincidere volontà liriche e autobiografiche con quella della narrazione, scegliendo però la forma poetica invece di quella compiutamente romanzesca. La forma classica e armonica di questa poesia si accompagna dunque a un contenuto moderno, la narrazione di un confuso sorgere, esplodere, repentinamente svanire di una ridda di apparizioni del passato, alle volte connesse tra loro in modo sfuggente, alle volte più o meno nitide, proprio come sono i ricordi sparsi che tornino a visitare la coscienza di chi li ha dispersi.
E dato che il protagonista dell’opera, intuitivamente autobiografico, è detto essere uno sperso, ecco la situazione ottimale perché questo turbine di ricordi più e meno importanti, remoti e vividi si dia all’assalto senza controllo; e nel corso della narrazione il sessantenne sperso avrà bisogno di una dantesca guida certa per non soccombere nel suo viaggio.
Tutta l’opera è attraversata dal motivo del viaggio, dello spostamento geografico: nei nomi di tutti i libri tranne che nell’ultimo campeggia un riferimento topografico, sia esso ai luoghi, alle mappe o al viaggio. Altra forte immagine ricorrente, consona allo schietto e amabilmente non ipocrita materialismo dell’opera, è quella della sessualità, che permane fino in fondo nella narrazione — alle volte con la sua violenza attentando al percorso mnemonico dello sperso, che per fortuna è aiutato dalla sua dantesca guida (“Per non concedere al sesso il comando/dell’infernale mostruoso can-can/la guida mia dolce là mi prese/e sparse esche nel cielo che albeggiava.”).
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È d’altronde rappresentata in tutto il testo una figura femminile dai contorni materni, mentre quella paterna è molto meno presente, se non in una rissa conclusiva col padre dello sperso o nel ricordo appena accennato di un maestro. D’altro canto commoventi per la loro tenerezza sono le pagine dell’ultimo libro, che l’autore dedica alla madre e alle sue “infaticabili domestiche Beatrici” (e a quest’ultime è anche dedicato tutto il libro).
Le volte che mi prese per la mano
a riordinar oggetti e ciarpame
e pur le belle cose qui s’invecchiano
nel lungo tramestìo del vivere
sento anche nel sonno, che mi difetta,
la sua pelle che sperde profumi
si fa più secco quel seno riparo
benché sia per me ancor porto certo,
il disperso con dita mal sicure
lì s’incapriccia ancora in quell’amore.
Le pagine più gustose mi paiono certamente quelle in cui il realismo delle descrizioni e degli ambienti si fa più nitido e vivace, e specialmente ben riusciti sono i quadretti campestri, bucolici, quasi pascoliani. Rigamonti ha la capacità di narrare il vero, e al contempo di trasfigurarlo, di mutarlo, di costellarlo di magia, con la forma di un onirismo vividissimo e al contempo grottesco; un realismo magico che alle volte sfuma, si perde, diviene rarefatto per poi ricoagularsi in altre vivacissime forme e colori, che presto però a loro volta sfuggono.
Occhiali del papa le chiamavano
là quelle piccole padelle o foglie,
che erano bianco velo lungo l’argine.
Veniva fuori sull’aia la sposa
col coro delle cugine zitelle
a bersi il vin santo coi cantucci,
sparava il bisnonno l’avancarica:
era un fru fru modesto, un frùscio lento
quel dondolarsi degli occhiali santi,
che chiudeva di quello sparo l’eco.
Ciò che rubò l’orecchio nel frastuono
Il blob dell’acqua del vecchio fonte,
lo sss del filo dentro la polenta,
il ciof di pesche sul prato cadute,
un tempo lo sperso si mise in tasca
con altre armonie piccole e sparse;
ora qui su righe di giochi e mondi
ricerco il primo udito, il più lontano,
ma non raggiungo l’urlo della madre,
che forse qualcosa potrebbe dirmi.

Quasi assenti invece dal racconto i riferimenti a qualsiasi attività lavorativa, qualsiasi elenco di conseguimenti “mondani”, che sono poi ciò di cui per lo più le autobiografie sono fatte; al contempo tenuissimo (e forse troppo, rischiando di dare l’impressione di ripetere luoghi comuni) il riferimento alle vicende e le convinzioni politiche del nostro sperso, con riferimento a sogni infranti dopo il Sessantotto e a una sorta di maturazione politica successiva col riferimento a una “carta d’identità proletaria”, rassicurante certificazione che si sarebbe in futuro acquistata tramite poco eroiche ristrettezze economiche.
Lo sparso è il racconto di una vita narrata tramite ciò che essa ha sparso per il mondo, per le persone, per le idee in cui essa si è trovata, ciò che poi confusamente torna ad essa nel momento del ricordo. Come tutte le vite ha anche una sua morte.
È una vita unica e reale, che probabilmente vuole essere esemplare nonostante l’autobiografismo sotteso, ma di cui alle volte al lettore sfuggono i legacci per via delle numerose ellissi tra un episodio e l’altro; ma chi d’altronde ha un’idea univoca, consequenziale, identitaria di sé, se non forse un illuso, o un bugiardo?
Non credo che l’ermetismo del testo, che pure a volte ne pregiudica il godimento, sia stato consciamente indirizzato a una precisa volontà di oscurità espressiva, ma ad un realismo psicologico per cui i ricordi sono presentati esattamente nella maniera confusionaria, sconclusionata, allusiva con cui ricorrono alla mente di ciascuno.
Scoprire sé non è dunque trovare un’identità, ma ritrovare tante briciole, tanti frammenti sparsi qua e là di un io che non è mai lo stesso, forse non l’è mai stato, forse è disperso qua e là, in luoghi e vite che non sono più sue.
Insomma, è per questo che il romanzo in versi di Adelio Rigamonti è da rileggere: perché tende a congiungere ciò che di più artificiosamente, ordinatamente, astrattamente bello ha la creazione artistica con la realtà del formicolante, sfuggente, multiforme Io — unica fonte di ogni individuo per la Realtà.
Stefano Santangelo
@sfnsnt