Del: 11 Ottobre 2014 Di: Redazione Commenti: 0

Il 9 maggio del 1992, due settimane esatte prima della strage di Capaci, chiudeva i battenti il primo quotidiano nazionale che avesse mai parlato di mafia, un giornale a cui non solo avevano offerto il loro contributo grandissimi del giornalismo e della letteratura italiane, come Sciascia o Pirandello, ma che era diventato baluardo e simbolo di un pezzo di società siciliana che con il mondo di politici, imprenditori, prelati e mafiosi non voleva avere a che fare.

L’Ora nasceva all’inizio del secolo per iniziativa della famiglia Florio, imprenditori nel settore vinicolo in forte espansione, con l’obiettivo di diventare la voce di quelle istanze della nascente media borghesia siciliana rimaste inascoltate da Roma e dai giornali filo aristocratici dell’epoca. Dopo le vicende iniziali, legate alla fortuna delle famiglie che ne detenevano la proprietà, nel 1914 il possesso passa nelle mani di Filippo Pecoraino, il quale dà un impulso importante al giornale chiamando alla direzione Salvatore Tessitore, docente di diritto canonico a Torino allontanato dai fascisti. Fino al 1926, anno dell’emanazione delle Leggi Fascistissime che chiudevano ogni spiraglio alla libertà di informazione e di opinione, il giornale rimase una voce indipendente e critica del governo e fu il primo a pubblicare, il 27 dicembre 1924, il cosiddetto “Memoriale Rossi” in cui l’ex capo ufficio stampa di Mussolini accusava apertamente il Duce di essere il mandante dell’omicidio Matteotti.

L'Ora Collage

Dopo la seconda guerra mondiale, il giornale passa in mano a Sebastiano Lo Verde, avvocato e genero di Pecoraino, il quale riesce a far tornare il giornale alle pubblicazioni nell’aprile del ’46 affidandone la direzione al giornalista socialista Pier Luigi Ingrassia.
Questi sono anni tumultuosi, di lotte intestine in un Paese lacerato dalle divisioni: il giornale non si vergogna di mettere in prima pagina nomi e fatti scomodi e dopo la strage di Portella della Ginestra — l’eccidio di dei lavoratori riunitisi per la festa del 1° maggio ad opera del bandito Salvatore Giuliano e della sua banda con l’intento di “punire il comunismo” della popolazione che festeggiava la recente vittoria del Blocco del Popolo (coalizione PSI-PCI) all’elezione dell’Assemblea Regionale Siciliana — il giornale non si tirò indietro dal dichiarare apertamente gli esecutori materiali della strage e a sottointendere un neanche troppo velato mandato politico. Generò tanto clamore da meritare addirittura una lettera di minacce dello stesso Giuliano in cui questi invitava a smettere di parlare di “fatti da non pubblicizzare” e a minacciare i giornalisti di poterci “rimettere la pelle”. La risposta epica di Ingrassia attraverso l’editoriale merita di essere ricordata:

«Bandito Salvatore Giuliano, tu minacci di farci rimettere la pelle, ma che cos’è la pelle? La pelle non è altro che un tessuto, il quale ha un valore se sotto ci sono tanti organi fra i quali il cervello e il cuore e quindi un’idea e una passione. Se per paura dovessimo rinunciare all’idea, a che ci servirebbe la pelle?»

Nel 1954 la proprietà della testata passa alla società GATE, già editrice di Paese Sera — proprietà del Partito Comunista Italiano. Avendo alle spalle una proprietà forte, il giornale riprende con maggiore vigore le pubblicazioni, diventando anche un calderone in cui sperimentare nuovi sistemi di comunicazione giornalistica; è infatti dal 4 novembre dello stesso anno che prenderà le redini della direzione Vittorio Nisticò, calabrese di nascita ma palermitano d’adozione, che porterà al giornale uno stile del tutto nuovo, stringato e diretto, con un ampio utilizzo delle immagini fotografiche per gli articoli di cronaca, nera in particolare.
Il giornale vede crescere la sua tiratura anche grazie ad un’innovativa inchiesta edita a puntate sul giornale dedicata al fenomeno mafioso, e all’innegabile connubio con la politica che sembrava aver addormentato l’intera Sicilia. L’inchiesta esce a partire dall’ottobre del ’58 e non si fa problemi a mettere in bella mostra nomi e documenti, a partire dalla misteriosa figura dell’allora sconosciuto Luciano Liggio e del suo crescente potere sull’isola.

La risposta mafiosa non si fa attendere, alle 4.52 del 19 ottobre esplode una bomba all’interno della storica sede del giornale in piazzetta Napoli distruggendo parte delle rotative. Il giornale torna in edicola il 20 ottobre col titolo a caratteri cubitali: “LA MAFIA CI MINACCIA. L’INCHIESTA CONTINUA”. Infatti, lungi dal loro proposito intimidatorio, i mafiosi vedranno i riflettori del mondo puntarsi sulla Sicilia proprio per questa ragione, tanto che lo stesso presidente della Repubblica Giuseppe Saragat riferirà in Parlamento: “Ci voleva l’attentato a L’Ora per scoprire che in Sicilia c’è la mafia”.

Tra i primati del giornale, c’è anche il fatto di essere stato il primo chiamato in causa da un procuratore della Repubblica per “vilipendio del governo e delle forze di polizia”, dopo aver dettagliatamente raccontato e fotografato le cariche e l’utilizzo indifferente delle armi da fuoco durante una manifestazione contro il governo Tambroni.
Uno dei giornalisti di punta del giornale, Etrio Fidora, deterrà per molto tempo il record di citazioni in tribunale arrivando alla ragguardevole cifra di 82, senza essere mai riscontrato colpevole una sola volta; il caso di Fidora fece tanto scalpore da scomodare due mostri sacri come Montanelli e Biagi nella difesa dello stesso.

Non mancano le pagine tristi, e tristemente rimaste un foglio bianco senza autori e mandanti a cui si possa chiedere di pagare il conto.

Giovanni Spampinato
Giovanni Spampinato

Il primo giornalista de L’Ora su cui la mafia cala la sua vendetta, in circostanze tutt’ora non chiarite, è Cosimo Cristina, nel 1960, mentre indaga sulle ramificazioni dei clan a Termini Imerese e a Caccamo.
Il 16 settembre 1970 viene sequestrato Mauro de Mauro — come ebbe a dire su di lui Tommaso Buscetta interrogato da Falcone e Borsellino: «De Mauro era un cadavere che camminava. Cosa Nostra era stata costretta a “perdonare” il giornalista perché la sua morte avrebbe destato troppi sospetti, ma alla prima occasione utile avrebbe pagato anche per quello scoop. La sentenza di morte era solo stata temporaneamente sospesa» — e infatti soli due mesi dopo essere stato trasferito alla sezione sportiva del giornale, scompariva nel nulla insieme a tre uomini mai identificati.
La scoperta che il giornalista si apprestava a fare ricostruiva un maleodorante intreccio tra ambienti politici dell’estrema destra eversiva, Cosa Nostra in Sicilia e misteriosi partners stranieri e ricalcava esattamente la stessa inchiesta che Camillo Arcuri racconta nel libro Colpo di Stato: «Soltanto oggi, col senno di poi, è possibile riconoscere la parte che tale fatto eversivo ebbe nell’innescare la lunga stagione delle stragi e del terrorismo nel nostro Paese. Ma se non venne fermato sul nascere è storia che riguarda da vicino anche il mondo dell’informazione, giornali e dintorni. Due cronisti ebbero la ventura di imbattersi, a distanza di mille chilometri e all’insaputa l’uno dell’altro, nello stesso complotto. E uno solo oggi può raccontare l’emozione della scoperta, l’ansia dell’inchiesta, l’ambiziosa speranza di riuscire ad evitare qualcosa di tragico; fino al crollo sotto il peso della censura che sigilla il caso in un impenetrabile blocco di silenzio».
Infine Giovanni Spampinato, freddato la notte del 27 ottobre 1972 mentre indagava sulla presenza a Palermo di esponenti di primo piano del terrorismo nero come Stefano delle Chiaie — omicidio rimasto ancora oggi senza giustizia.

È un lungo elenco che lascia senza parole soprattutto per la mancanza di risposte certe anche a distanza di molti anni, quando la riconciliazione della memoria sarebbe il minimo auspicabile per tutti i parenti delle vittime.

Le vicende del giornale si legano ancora di più all’attività dei grandi giornalisti che vi lavoravano sul finire degli anni 70, quando il PCI smette di erogare fondi per il giornale e la redazione si trasforma in una cooperativa per mantenere le rotative accese. Vittorio Nisticò diviene il presidente dell’associazione e Nicola Cattedra prende le redini del giornale; è lui a capo quando avviene l’omicidio dell’on. Pio La Torre, condannato dalla mafia per il disegno di legge che introduceva il reato di associazione mafiosa e la confisca dei beni, collegata con l’esecuzione del generale Dalla Chiesa.

L’ultimo direttore è Vincenzo Vasile, il quale in un’intervista per Rai Storia racconta di come il giornale abbia chiuso solo per i problemi finanziari dell’editore e di come stesse risalendo nella vendita delle copie; soprattutto evidenzia come sia stato chiaro il mancato appoggio politico per il salvataggio della testata. Siamo infatti all’inizio degli anni 90 e si sta per aprire quella tremenda e dolorosa stagione in cui la mafia “alza il tiro” e rivolge un’aperta sfida allo Stato. Come ricorda il direttore: «L’Ora sarebbe stato un testimone molto scomodo di quegli eventi».

Oggi ci resta il ricordo di un giornale antimafia; il meraviglioso lavoro di una redazione compatta e unita rimane nei cuori di tutti i palermitani e di quanti hanno avuto occasione di imbattersi nella sua storia.

Infine, ricordando le parole del direttore Ingrassia, resta l’Idea — quella speranza nascosta di un mondo in cui non ci sarà più bisogno di giornali antimafia.

Jacopo G. Iside
@JacopoIside


Altre storie di mafia e antimafia: Carlo Alberto Dalla Chiesa, intervista a Giulio Cavalli, Nomi cognomi e infami, Terremoti Spa, Il delitto Scopelliti raccontato da Aldo Pecora, videointervista ad Alberto Nobili, Pizzo Free, intervsita ad Antonio Moresco, intervista a Basilio Rizzo, intervista a Giuseppe Ayala

Redazione on FacebookRedazione on InstagramRedazione on TwitterRedazione on Youtube
Redazione

Commenta