Posted on: 19 Novembre 2014 Posted by: Giulia Pacchiarini Comments: 0

Sottoporsi ad un’operazione, in qualsiasi parte del mondo questo avvenga, chiunque sia il paziente, chiunque sia il medico, fa paura. Sapere di doversi stendere sopra un tavolo operatorio o una branda, lasciare che qualcuno addormenti il proprio corpo e che altri lo taglino e lo aprano, ne tocchino le viscere e taglino di nuovo e ricuciano, non è qualcosa di piacevole. Si accetta di andare sotto i ferri solo per buone ragioni, perché non vi è altra scelta, per la propria salute o per quella del figlio che per mesi si è portato in grembo. Per la maggior parte delle future madri il parto compiuto tramite taglio cesareo è quindi la scelta meno desiderata e più spaventosa, unisce il timore di un’operazione a quello per il bene del proprio neonato, per la propria vita e la sua.

In quei momenti, anche in condizioni di perfetta salute e all’interno di strutture ospedaliere rinomate, il panico prende il sopravvento, si è poco lucidi, si accettano senza pensare indicazioni e consigli medici, proprio perché forniti da medici. Questa condizione si fa più evidente poi, quando la madre possiede patologie preesistenti, che aumentano il pericolo, come l’Hiv.
Quando in Namibia Emilia Handumbo, sieropositiva, si è recata in ospedale per partorire il suo primo figlio e le è stato caldamente consigliato il parto cesareo, lei ha accettato e ha firmato i fogli che le sono stati posti sotto mano, sottoscrivendo così, senza che se ne rendesse conto e senza nessuno la informasse in alcun modo, il consenso ad effettuare una sterilizzazione permanente mediante legatura delle tube.
Durante l’operazione la donna si è resa conto di ciò che stava avvenendo, tramite uno scambio di battute tra infermiere e chirurgo, ma non ha potuto fare nulla.

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È stata costretta a rimanere immobile mentre veniva sterilizzata contro la sua volontà, una violenza a cui non vi è rimedio, che incide sul fisico e sulla psiche di una donna, oltre che nelle sue relazioni sociali, soprattutto all’interno di popolazioni in cui il ruolo femminile è essenzialmente legato alla figura materna, dove l’impossibilità di generare figli è fonte di discriminazione e isolamento.

La ragione ufficiale, giustificata da presunte direttive governative – più volte smentite da ministri di diversi ordini e livelli – che ha spinto i medici a mettere in atto la procedura chirurgica è collegata al il fatto che la donna abbia contratto in precedenza il virus del’Hiv, condizione ritenuta incompatibile con un’ulteriore gravidanza (nonostante il figlio appena partorito fosse sano).

Non si è trattato però dell’unico caso, secondo l’attivista Jenny Gatsi-Mallet i primi dati risalgono al 2001, spesso però le operazioni non vengono nemmeno dichiarate o le donne non se ne accorgono, a volte non fanno controlli ulteriori per stabilire le cause dell’improvvisa sterilità e l’abuso rimane nascosto.

Le discriminazioni che subiscono uomini e donne sieropositivi si esprimono in Namibia come in molti altri Paesi con segregazioni sociali, che escludono dalle comunità, dalle principali professioni, e che non raramente incrociano anche la sfera sanitaria. Il caso di Emilia, come quello di altre due donne conosciute dopo che avevano subito la medesima operazione, ha suscitato l’interesse della stampa quando, spezzando il sodalizio omertoso tra sanità e stato che circonda queste condizioni, hanno deciso di intentare una causa contro il governo.

Il 3 novembre 2014 la Corte Suprema Namibiana ha riconosciuto per la prima volta l’illegalità (e l’inumanità) del trattamento inflitto senza consenso della paziente, ha constatato le responsabilità del governo e lo ha obbligato a fornire un risarcimento alle donne coinvolte. Si tratta della prima sentenza che concede giustizia alle donne che hanno subito quella che è, senza dubbio, una tortura e si dimostra fondamentale per l’intero continente africano, dove la pratica è diffusa e l’opinione pubblica silenziata.

L’idea che lo stato possa farsi discriminante in un ambito privato come quello della riproduzione non è prerogativa esclusiva della Namibia ma è stata applicata in diversi Paesi, spesso mascherata da mezzo di controllo delle nascite, il più delle volte contro la volontà dei pazienti, uomini e donne (in maggioranza).

Furono gli Stati Uniti d’America la prima nazione a mettere in atto un piano di sterilizzazione forzata a fini eugenetici, terapeutici e punitivi.

Il primo stato ad approvare una legge che consentisse la procedura fu l’Indiana nel 1907 seguito da California – che risulterà poi il Paese con il maggior numero di casi – e Washington. Rimase una pratica in atto fino agli anni ’70 – anche se nell’Oregon l’ultimo caso è stato registrato nel 1981 – nonostante il numero di operazioni si fosse fortemente ridotto dopo la seconda guerra mondiale perché non così diverso agli occhi dell’opinione pubblica dai crimini contestati al regime nazista.

Durante la dittatura nazista infatti, una delle prime leggi che venne promulgata fu la Gesetz zur Verhütung erbkranken Nachwuchses, che richiedeva la creazione di tribunali eugenetici perché potessero essere giudicati i diversi casi di patologie psicofisiche o presunte tali e potesse essere decretata l’assoluta necessità di una procedura di sterilizzazione.
Dal 1933 vennero creati più di 200 Tribunali per la Sanità Ereditaria (Erbgesundheitsgerichten), vennero processati individui con malattie genetiche, alcolizzati, e uomini e donne “di razza mista”. Alla fine del 1945 si stima che fossero state sterilizzate più di 400.000 persone, il caso fu portato al processo di Norimberga ed esecutori e mandanti vennero incriminati.

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Un altro caso emblematico è quello del Perù, dove la pratica della sterilizzazione forzata è stata imposta nel 1995 sotto l’amministrazione del presidente Alberto Fujimori, in carica fino al 2000 e oggi accusato di Genocidio e Crimini di guerra, mascherata da Piano di Salute Pubblica e finanziato anche dal Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione. Durante il periodo in cui rimase in vigore la legge la pratica venne attuata su poco meno di 400.000 individui, in maggioranza indigeni, in nome di un controllo delle nascite. Spesso coloro che subivano questa procedura, oltre che soffrire i danni fisici e psicologici che ne sono immediata conseguenza, rimanevano invalidi, con enormi difficoltà nel compiere il lavoro agricolo, che è la maggiore fonte di sostentamento, portando le proprie famiglie in una situazione ben più gravosa di quella in cui si sarebbero trovate con una bocca in più da sfamare.

La Svezia, considerata baluardo della tutela dei diritti civili, ha mantenuto in vigore una legge del 1934 — la Sterelization Act, un pacchetto di misure per il controllo delle nascite con prerogative eugenetiche — fino al 1976, imponendo la sterilizzazioni sui corpi di 62 mila individui su una popolazione totale di circa 8 milioni di persone. Successivamente la legge è stata in parte abolita ma fino al 2012 è rimasto vigente il comma riguardante gli individui transgender, la cui riproduzione (tramite ovuli e sperma congelati precedentemente al cambio di sesso) è stata quindi negata fino a due anni fa dal governo svedese del partito conservatore dei Cristiano-Democratici. Il cambio della normativa inoltre è giunto mediante una sentenza della Corte di Appello di Stoccolma, non per una scelta legislativa, che l’ha giudicata incostituzionale e in contraddizione con la Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
Non sono state ancora promulgate scuse ufficiali da parte dell’amministrazione statale ed è stato negato qualsiasi risarcimento.

Una delle numerose proteste svedesi contro la sterilizzazione forzata. Pride Parade, Stoccolma, 2010. Immagine via VICE
Una delle numerose proteste svedesi contro la sterilizzazione forzata. Pride Parade, Stoccolma, 2010.

L’ultimo caso eclatante è stato quello registrato in India dove l’8 novembre nel distretto di Bilaspur, presso lo stato centrale di Chhattisgarh, 83 donne hanno partecipato a un programma di sterilizzazione finanziato dal governo.

In India solo nel 2012 sono state effettuate 4,6 milioni di sterilizzazioni e le donne – consapevoli o meno –sottoposte alla procedura ricevono circa 1.400 rupie, l’equivalente di 20 euro.

L’8 novembre però qualcosa è andato storto e durante le operazioni sono morte 13 donne, mentre altre 64 sono state ricoverate. Alcuni giorni dopo sono stati arrrestati R.K. Gupta, il medico che ha effettuato le sterilizzazioni, e il proprietario della Mahawar Pharma, perché sospettato di aver ordinato la distruzione di alcune prove legate alla morte delle pazienti.

Nella lista che circoscrive i Paesi che hanno legalizzato la sterilizzazione obbligatoria nel corso della loro storia compaiono le nazioni più lontane, dalla Cina alla Svezia, dal Giappone a Porto Rico, all’Uzbekistan, passando per il Canada, la Russia e altri. Spesso coloro che si sottopongono alle procedure lo fanno inconsapevolmente – firmando certificati senza che nessuno spieghi loro il contenuto – per cibo, denaro, un automobile, per ordine governativo, fidandosi dei medici o sotto loro ricatto. Si tratta di una delle più gravi violazioni dei diritti umani per cui né la sovrabbondanza demografica né il giudizio penale riescono a fornire una giustificazione.

Operare un corpo sano senza il consenso informato del paziente è tortura, ad opera di un’amministrazione che si ritiene in grado di pregiudicare la riproduzione di un essere umano per cause di difficile intendimento razionale ed è incapace di educare la popolazione a un controllo delle nascite cosciente.
Non vi può quindi essere giustificazione né tolleranza per i mandanti e gli esecutori di un tale gesto, perché nessuna possibilità è stata data a chi ha dovuto subire una sterilizzazione obbligatoria, tantomeno quella di tornare indietro, di tornare ad avere il corpo sano e in forze di cui si è stati privati.

Giulia Pacchiarini
@GiuliaAlice1

Images via VICE, Giornale del popolo

Giulia Pacchiarini
Ragazza. Frutto di scelte scolastiche poco azzeccate e tempo libero ben impiegato ascoltando persone a bordo di mezzi di trasporto alternativi.

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