Il fatto non sussiste.
In gergo giuridico significa che il reato ricostruito dalla pubblica accusa non ha trovato riscontro nella realtà, non è stato provato, non è avvenuto così come è stato narrato.
Ne consegue la piena assoluzione.
Il fatto in questione è la colpevolezza di sei membri della Commissione Grandi Rischi — Franco Barberi ex presidente della Commissione, Enzo Boschi ex presidente dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia, Giulio Selvaggi direttore del Centro Nazionale Terremoti, Claudio Eva professore di fisica dell’Università di Genova, Michele Calci direttore di Eucentre e Mauro Dolce direttore del servizio sismico del Dipartimento della Protezione — che il 31 Marzo 2009 vennero chiamati a dare la propria opinione riguardo alle scosse che da mesi scuotevano il territorio abruzzese.
La popolazione aquilana all’epoca venne tranquillizzata in merito alla sicurezza del suolo e delle abitazioni, le scosse non avrebbero provocato grossi danni secondo gli esperti.
Dopo cinque giorni il terremoto si verificò, spezzò L’Aquila e sfasciò paesi interi, uccise 309 persone, ne ferì migliaia, ne sfollò ancora di più.
Il conseguente processo Grandi Rischi ebbe inizio 3 anni dopo e chiamò in giudizio i membri della Commissione omonima con un’accusa di omicidio colposo, disastro e lesioni gravi, che il giudice Marco Billi rese effettiva nel 2012 con una sentenza che giudicava colpevoli i sette imputati — i tecnici sopra citati e Bernardo De Bernardinis, ex vice capo del settore tecnico della Protezione civile. La sentenza una volta pronunciata subì immediatamente critiche da diversi esponenti del mondo politico, come l’allora Ministro dell’Ambiente Corrado Clini che la stigmatizzò come un caso unico nella storia dopo il processo a Galileo Galilei, ma anche dall’importante rivista scientifica Nature che scrisse “il verdetto è perverso e la sentenza ridicola”. Le motivazioni della sentenza però specificarono settimane dopo che non era posta in giudizio la capacità di prevedere il sisma – elemento chiave che aveva scatenato le ire del mondo scientifico – ma la capacità comunicativa dei tecnici che non erano stati in grado di avvisare in modo efficace la popolazione commettendo una “monumentale negligenza”.
Il 10 novembre 2014, due anni dopo il primo processo, la Corte d’Appello dell’Aquila — presieduta da Fabrizia Francabandera e composta anche dai giudici Carla De Matteis e Marco Flamini — ha ribaltato la sentenza precedente, assolvendo perché il fatto non sussiste i sei tecnici e diminuendo la pena di Bernardo De Bernardinis da 6 a 2 anni, ritenendolo colpevole per la morte di 13 delle 29 vittime di cui i famigliari si sono costituiti parte civile durante il processo.
Le motivazioni della sentenza verranno pubblicate tra alcune settimane, ma la popolazione aquilana non può aspettare, grida “Vergogna!” e pretende ragioni che giustifichino le assoluzioni e giustifichino quei morti che forse si sarebbero salvati se solo qualcuno avesse detto loro di uscire di casa, andarsene, scappare.
Proprio questa assenza di informazioni, basilare nel primo processo, è da porre di nuovo sotto esame perché pare che anche nella seconda sentenza prenda un ruolo fondamentale.

In quei giorni nessuno si pronunciò apertamente in merito al pericolo delle scosse, la concatenazione di informazioni che avrebbe dovuto portare ad una comunicazione precisa o almeno generalmente esatta verso gli aquilani, ebbe dunque una falla. La tesi principale della difesa sostiene che un terremoto non si possa prevedere e che quindi i tecnici non avrebbero potuto esprimersi con certezza, l’accusa invece si regge sull’idea che con i dati in possesso agli imputati qualcosa si sarebbe potuto fare. Secondo la corte evidentemente l’unico che avrebbe potuto fare qualcosa per evitare 13 morti – c’è da chiedersi quale sarebbe stata la sorte dei restanti 296 – sarebbe stato Bernardo De Bernardinis. La falla comunicativa si palesa quindi nelle responsabilità di un unico uomo, che pare che nessuno abbia tentato di fermare o smentire in cinque interi giorni, nonostante le scosse fossero in attività dal dicembre precedente, nonostante gli aquilani avessero paura, nonostante non ci fosse certezza sulla mobilità del territorio.
Vi era una commissione Grandi Rischi ma la decisione di mantenere una linea serena e rilassata nei confronti degli abruzzesi è stata presa da un unico uomo, così ha decretato la sentenza del 10 novembre.
Il procuratore generale dell’Aquila Romolo Como si è detto sconcertato proprio per questa responsabilità del singolo, che è difficile immaginare e a cui in ogni caso è faticoso attribuire una pena che a famigliari e difesa pare così lieve.
Oggi di quella notte del 6 aprile sono stati eviscerati tutti i secondi, tutte le storie, tutti i corpi – riesumati dalle tombe di macerie – ma ciò che è accaduto davvero all’interno della Commissione Grandi Rischi cinque giorni prima appare ancora ambiguo.
I sette esperti – dichiarati colpevoli o meno – hanno deciso, consultando tesi scientifiche incerte, di non avvisare la popolazione, di non metterla a conoscenza nemmeno del rischio, di non fare rumore. Devono averlo deciso insieme o non sarebbe stata una commissione, ma la scelta autonoma del vice del settore tecnico della Protezione Civile dopo la consultazione di tesi altrui. In questo caso sarebbe necessario inaugurare un nuovo processo nei confronti di questa stessa commissione perché inesistente e falsata.
Gli uomini assolti qualche giorno fa non hanno colpe secondo questa sentenza, ma a causa della scelta di non parlare nemmeno del rischio, di non rivelare pienamente alla popolazione il contenuto delle proprie ricerche, di seguire la volontà di De Bernardinis e assecondarlo, ne sono diventati, almeno moralmente, complici e colpevoli nei confronti delle vittime. Per questo gli aquilani continuano a protestare, perché sarebbe bastata una voce contraria tra quegli esperti ufficiali, per convincerli a lasciare la città, perché qualcuno li prendesse sul serio, per risparmiare almeno 2 processi e 309 morti.
Giulia Pacchiarini
@GiuliaAlice1