
Annunciato il 5 luglio da un inaspettato tweet di Polly Samson (moglie di David Gilmour) e atteso fortemente con sentimenti contrastanti, The Endless River è finalmente sugli scaffali dei negozi — quindicesimo album in studio del gruppo, terzo dopo l’uscita di scena dell’ex leader Roger Waters nel 1985, e primo dopo venti anni d’attesa da The Division Bell.
È proprio dal materiale inedito registrato durante le sessioni di quest’ultimo, avvenute tra il 1993 e il 1994, che The Endless River prende vita, da quelle registrazioni, ampliate e migliorate, che avrebbero dovuto far parte di un altro progetto, chiamato provvisoriamente The Big Spliff, poi accantonato dalla band e ripreso da Gilmour e Mason dopo la morte (nel 2008) di Richard Wright, alla cui memoria è dedicato.
Leggendo queste righe molti potrebbero pensare che l’album si presenti come un raffinato copia e incolla di pezzi non conclusi, di belle idee a metà, precedentemente scartate per un minore valore artistico, rispetto alle tracce che entrarono a far parte di TDB. Potrebbero pensare che forse Wright non avrebbe voluto vedere la pubblicazioni di questi pezzi, in cui probabilmente non troverà molto spazio – visto che i due Floyd rimasti hanno rivisto il materiale – e magari anche che i Pink Floyd, dopo l’uscita di Waters dal gruppo, non sono più stati granché.
Queste opinioni, per quanto interessanti ed espresse similmente da autorevoli personalità nel mondo del giornalismo, forse prescindono da un ascolto attento del disco. Perchè The Endless River è un album particolarmente insolito per i Pink Floyd, un album che necessita un ascolto diverso da quello a cui ci avevano abituato. E ad avvertire di questo era stato lo stesso David Gilmour, sostenendo come occorresse «entrare nello spirito giusto, per ascoltarlo. C’è ancora un sacco di gente che ama ascoltare la musica in questo modo, cioè prestando attenzione a un’opera nella sua completezza e cercando di entrare nel mood della stessa, invece che limitarsi a fruire di singoli brani più brevi. Ecco, il nostro ultimo disco è dedicato a loro. L’unico concept dietro a The Endless River è il concept di Rick e Nick che suonano come hanno sempre fatto in passato, ma che in un certo senso avevamo dimenticato».

Ed è proprio quest’ultimo punto che va compreso appieno per apprezzare in tutta la sua totalità questo album. Nel lontano 1993, mossi dal desiderio di ritornare a quelle che erano state le loro origine, si chiusero in sala di registrazione — tra i Britannia Row Studios e la suggestiva Astoria (casa sull’acqua adibita a studio di registrazione da Gilmour nel 1986) — lasciando libero sfogo all’ispirazione e all’immaginazione.
Il risultato è un album quasi totalmente strumentale dalla cura del suono perfetta, ai limiti del maniacale, rara da trovare in un altro album del nostro tempo. L’atmosfera onirica e dolce s’alterna a momenti più cupi e profondi in un intervallarsi di sensazioni diverse per tutte le 18 tracce che compongono il progetto, divise idealmente in 4 lati.
Il primo lato, composto da tre tracce, si apre con “Things left unsaid” che dal titolo pare dare un senso all’intero album. Un’espressiva chitarra di Gilmour sembra danzare sulle nuvole in questa apertura, nuvole che altro non sono se non il tappeto sonoro intessuto da Wright ,che cresce fino allo stacco che dà inizio al secondo brano, “It’s What We Do”: un’ eco di “Shine On You Crazy Diamond pt.2”. Chiude il primo lato “Ebb And Flow” che ritorna alle sonorità più dolci del primo pezzo.
“Sum” apre il secondo lato del progetto, con un evidente richiamo a The Division Bell nell’introduzione. Un synth spiana la strana alla chitarra, che distorta si alza sul dialogo tra piano e ritmica fino a sfociare nel secondo brano, “Skins”, in cui un insolito Mason erge un muro ritmico dalle sonorità quasi ancestrali con una chiusura in atmosfere mistiche che introduce l’organo di “Unsung”, breve terzo brano. Chiude il lato “Anisina”: un brano struggente – che richiama all’evidenza “Us and Them” sia nelle sonorità che nella struttura – che si apre con dei semplici accordi di piano forte su di un tappeto di synth in un continuo crescendo di suoni fino all’apoteosi di clarinetto e sax, conclusa con il solo di Gilmour.

Sfuma nei tuoni e nella pioggia questo secondo lato, dando il via al terzo che si apre con sonorità completamente diverse rispetto ai primi due. “The Lost Art Of Conversation” è un brano commovente al piano, dal sound a tratti noire e jazzistico, in cui si sente fortemente il primo Wright. Da sottolineare in questo lato anche “Allons-y” e “Autumn ’68”. Il primo brano nelle sonorità e nella struttura ricorda fortemente “ The Wall” e il fatto che sia diviso in due parti probabilmente non è un caso. Il secondo invece, cita nel titolo il ben noto “Summer ’68” di Atom Heart Mother e, anche se non lo ricorda minimamente, è uno dei punti più alti dell’album: un organo da chiesa risuona dialogando con i sintetizzatori in un toccante fraseggio, reso ancora più espressivo dall’entrata della chitarra. Nell’ultimo brano della terza parte fanno la loro comparsa i cori, centrali nell’ultimo lato del disco, che sottolineano la dimensione su cui si erge la voce di Stephen Hawking. Il quarto lato si apre con “ Calling”, un brano dalle tonalità cinematografiche, interamente costituito da un intrecciarsi di sintetizzatori e piano.
“Eyes to pearl”, nel suo richiamarsi a Moonhead, è introdotto dalla chitarra di Gilmour che traccia il tema del pezzo per tutta la sua durata, stringendosi con il basso fino alla conclusione che apre a “Surfing”, brano fortemente gilmouriano che ricorda nuovamente le sonorità di The division Bell. Questo penultimo brano funge da introduzione all’unico pezzo cantato del disco: “Louder Than Words”. Unico singolo estratto dall’album, è il testamento spirituale della band. Si apre con rintocchi di campane, pianoforte e arpeggio di chitarra fino all’arrivo della voce di Gilmour che prosegue fino alla fine del pezzo, che si conclude con un malinconico assolo di chitarra.
Ciò che conta davvero in questo brano, tuttavia, è il testo in cui per la prima volta i Pink Floyd si fermano a guardare il loro passato, ripensando a tutta la loro storia e capendo come tutto ciò che hanno fatto fosse più forte di ogni parola.
It’s louder than words
This thing that we do
Louder than words
It way it unfurls.
It’s louder than words
The sum of our parts
The beat of our hearts
Is louder than words.
Louder than words.
E con questo album fortemente malinconico, ricco di riferimenti a tutta la loro carriera, in onore del grande Wright (il cui valore viene troppo spesso sottovalutato), si conlcude la storia dei Pink Floyd.
Una storia dannatamente bella.
Federico Arduini
@FedesArdu
Tracce
1. Things Left Unsaid – 4:24 (David Gilmour, Richard Wright)
2. It’s What We Do – 6:21 (David Gilmour, Richard Wright)
3. Ebb and Flow – 1:50 (David Gilmour, Richard Wright)
4. Sum – 4:49 (David Gilmour, Nick Mason, Richard Wright)
5. Skins – 2:37 (David Gilmour, Nick Mason, Richard Wright)
6. Unsung – 1:06 (Richard Wright)
7. Anisina – 3:15 (David Gilmour)
8. The Lost Art of Conversation – 1:43 (Richard Wright)
9. On Noodle Street – 1:42 (David Gilmour, Richard Wright)
10. Night Light – 1:42 (David Gilmour, Richard Wright)
11. Allons-Y (1) – 1:56 (David Gilmour)
12. Autumn ’68 – 1:35 (Richard Wright)
13. Allons-Y (2) – 1:35 (David Gilmour)
14. Talkin’ Hawkin’ – 3:25 (David Gilmour, Richard Wright)
15. Calling – 3:38 (David Gilmour, Anthony Moore)
16. Eyes to Pearls – 1:51 (David Gilmour)
17. Surfacing – 2:46 (David Gilmour)
18. Louder Than Words – 6:32 (Polly Samson – David Gilmour)