Del: 5 Dicembre 2014 Di: Erin De Pasquale Commenti: 2

A volte due persone riescono a lasciarsi in modo pacifico, senza grandi drammi; spesso, la rottura è più violenta, con i due membri della coppia che finiscono per non parlarsi più. Ma sono veramente rari i casi in cui la fine di un amore dà origine ad una campagna di odio su tutto l’internet lunga mesi.
Spero possiate perdonare questo incipit da giornale di gossip di terz’ordine, ma è necessario per comprendere l’origine della vicenda di cui stiamo parlando.

Zoe Quinn è una famosa sviluppatrice indipendente di videogiochi e creatrice di Depression Quest, un gioco indie uscito prima per browser nel 2013 e poi sulla piattaforma di distribuzione videoludica Steam nell’agosto di quest’anno. Pochi giorni dopo il rilascio del titolo, l’ex fidanzato della ragazza decise di dimostrare la sua maturità pubblicando un articolo sul suo blog – e in seguito un video su YouTube – in cui venivano elencati tutti gli uomini con i quali Zoe Quinn pare lo avesse tradito. In questa lista però compariva anche il nome di Nathan Grayson, famoso giornalista specializzato in ambito videoludico (è redattore, tra le tante, anche di Kotaku, uno dei principali siti di informazione riguardo a videogiochi e cultura pop). L’accusa era quindi chiara: Zoe Quinn aveva offerto favori sessuali al giornalista in cambio di recensioni positive del suo gioco. Peccato che, dati alla mano, tutte le accuse si sono rivelate false, in quando Grayson si è semplicemente limitato a citare il gioco una volta in un suo articolo riguardo ad un evento al quale erano presenti diversi sviluppatori indipendenti.

La polemica quindi si è esaurita qui, l’ex fidanzato di Zoe Quinn ha chiesto pubblicamente scusa e tutti vissero felici e contenti, giusto? Sbagliato.

Fin dagli inizi, le accuse alla Quinn sono state supportate da una grossa fetta di videogiocatori che, con il pretesto di combattere contro la corruzione nel giornalismo nel settore videoludico, hanno intrapreso una vera e propria campagna d’odio contro di lei. I social network – in special modo Reddit, 4chan e Twitter – si sono quindi riempiti di insulti e minacce di violenza nei confronti della donna; non solo, anche alcuni suoi dati personali sono stati resi pubblici attraverso operazioni di hacking, come per esempio il suo indirizzo di casa.

In questo modo è nato il Gamergate, un movimento tutt’ora in corso creato ufficialmente con l’obiettivo di rivendicare l’integrità etica del giornalismo di settore, ma in realtà non è altro che un pretesto per un attacco misogino indiscriminato.

Perché Zoe Quinn non è stata l’unica donna a subire un attacco di questo tipo: tutti coloro che hanno osato mettere in dubbio la veridicità delle accuse mosse dagli aderenti al movimento, o semplicemente coloro che hanno dimostrato la loro vicinanza alla sviluppatrice sono stati soggetti a loro volta di un attacco simile, in particolar mondo – non c’è neanche bisogno di dirlo – se donne.

Un altro caso esemplificativo è quello di Anita Sarkeesian una nota blogger e critica di videogiochi dichiaratamente femminista. In realtà questa non è la prima situazione del genere in cui si ritrova: nel 2012, infatti, aveva lanciato una campagna Kickstarter per finanziare una serie di video nei quali avrebbe analizzato il ruolo della donne e il modo in cui vengono raffigurate nei videogames; dopo aver raggiunto la cifra richiesta nel giro di ventiquattro ore, la donna ha ricevuto molestie di ogni tipo (le sono stati inviati addirittura dei fotomontaggi nei quali veniva stuprata dai più famosi protagonisti maschili dei videogiochi), e la situazione è andata peggiorando una volta caricati i primi video su Youtube, fino ad arrivare al punto di essere costretta a chiudere la sezione dei commenti.

cyberbulling

Anita Sarkeesan è stata una delle prime a supportare e difendere Zoe Quinn agli albori del Gamergate. Ciò non ha fatto altro che riaccendere un focolaio mai del tutto spento, e i commenti d’odio si sono intensificati ulteriormente, tanto da costringerla a cambiare casa dopo che il suo domicilio era stato reso pubblico.
Il punto critico è stato raggiunto il 14 ottobre, quando la blogger ha deciso di cancellare un suo intervento presso la Utah State University dopo aver ricevuto da parte di un presunto studente dell’università la minaccia di compiere una strage durante il suo discorso. La Sarkeesan ha però tenuto a precisare di aver voluto cancellare l’intervento non tanto per il rischio di un attacco terroristico — per dovere di cronaca, aveva ricevuto minacce del genere in altre occasioni — bensì per le misure di sicurezza a sua detta inadeguate.

È chiaro: la relazione tra Zoe Quinn e Nathan Grayson è stata solo la fatidica goccia che fa traboccare il vaso, la scintilla che ha acceso la miccia.

In realtà esiste da anni nella comunità dei videogiocatori una corrente sotterranea – ma neanche troppo – di persone guidate da un odio irrazionale nei confronti delle donne in attesa del più piccolo pretesto per sfogare il loro istinto misogino.

Essi sono una minoranza, ne sono sicuro, ma una minoranza rumorosa, che fa parlare di sé e getta fango sulla categoria che credono di rappresentare.

Durante uno dei periodi più caldi del Gamergate, uno sviluppatore indipendente, Andreas Zecher, ha pubblicato una lettera aperta — firmata poi da centinaia di altri sviluppatori, anche delle software house più importanti — ai videogiocatori di tutto il mondo invitandoli a rispettare qualsiasi giocatore, sviluppatore o critico a prescindere dal sesso, orientamento sessuale, etnia e credo religioso. Il messaggio ha sortito però l’effetto opposto, facendo indignare molte persone che si sono sentite chiamate in causa ingiustamente. Benché sia sbagliato fare di tutta l’erba un fascio, è normale che a causa di comportamenti così allarmanti l’intera comunity del gaming fosse messa sotto processo.

L’obiettivo dichiarato dagli aderenti al Gamergate è sulla carta nobile e giusto, ed è vero che nel corso degli anni ci sono stati dei casi quantomeno sospetti di rapporti strani tra software house e singoli giornalisti. Ma da questo a denunciare un complotto su scala mondiale della stampa specializzata il passo è veramente lungo, soprattutto se le argomentazioni portate – poco sensate già di per sé – sono accompagnate da dosi così massicce di misogina ingiustificata.

Per anni la società ha definito i videogiocatori come persone alienate dalla realtà, spaventate dai rapporti sociali e dalle donne; forse alcune persone se lo sono sentiti ripetere così tante volte da essersene convinti, e adesso reagiscono di conseguenza. Ma non esistono giustificazioni per atti del genere.

Se mai ci fosse stato qualcosa di positivo nel Gamergate ormai è morto, sepolto dagli insulti e dalle minacce di morte e stupro. Resta solo da prendere le distanze dal movimento e condannare apertamente gli attacchi d’odio, in ogni sua forma.

Erin De Pasquale
@SirRexin

Erin De Pasquale
Studente di Lettere. Amo i videogiochi, fumetti, serie tv e libri: se esiste qualcos’altro là fuori, non voglio saperlo.

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