Ieri il capo del governo israeliano Benjamin ”Bibi” Netanyahu è stato a Roma per discutere con il Ministro degli Esteri USA John Kerry degli ultimi sviluppi sulla questione palestinese. Netanyahu ha informato Kerry che non si piegherà all’ ”intifada diplomatica” dei palestinesi, che vorrebbero fare approvare dall’ONU una mozione per costringere Israele a ritirarsi dai territori occupati entro due anni. Lo Stato di Palestina da qualche anno è finalmente rappresentato all’ONU e in questi ultimi tempi un numero crescente di Paesi europei lo sta riconoscendo come nazione legittima: questo sdoganamento non piace per niente a Netanyahu, il quale – nonostante gli ormai pessimi rapporti con Kerry e l’amministrazione Obama – si è detto sicuro che gli americani porranno il loro veto alla mozione palestinese, come è in loro potere fare e come hanno sempre fatto in simili occasioni.
Netanyahu vuole tornare a casa a vincitore: è in piena in campagna elettorale.
Lo scorso 2 dicembre ha licenziato con modi bruschi due dei ministri più influenti del suo governo – il Ministro delle Finanze Yair Lapid e quello della Giustizia Tzipi Livni – per la loro opposizione frontale alla sua proposta di modifica costituzionale che avrebbe ribattezzato Israele in ”Stato della nazione ebraica”, dando un carattere ancora più etnico e religioso al Paese; poi si è dimesso e ha indetto nuove elezioni.
Le consultazioni sono state fissate il 17 marzo del prossimo anno. Consultazioni che il premier è sicuro di vincere: l’avversaria storica del suo Likud, la sinistra del Partito Laburista, naviga da anni in una crisi d’identità. Il segretario Isaac Herzog è stato definito dalla stampa rivale ”una nullità” senza carisma. Herzog, incerto e in cerca di sponde, ha deciso di allearsi con Hatnuah, il partito centrista della licenzianda Tzipi Livni: il patto è incentrato su un meccanismo politico ”da Prima Repubblica” — se la coalizione vince, per due anni governa Herzog, poi Herzog si dimette e al governo va la Livni fino alla fine del mandato. La nuova coppia più bella d’Israele si è già messa in moto, visitando a braccetto le regioni vicino a Gaza. Alcuni la danno in vantaggio su Likud e se le elezioni finissero come due anni fa la loro coalizione avrebbe la maggioranza in parlamento. Ma la Livni è in calo di popolarità, e il sistema della staffetta fa alzare il sopracciglio all’elettorato israeliano.

La vera sorpresa delle prossime elezioni potrebbe essere uno dei vecchi pupilli dell’attuale Primo Ministro, cresciuto nel suo partito: Moshe Kahlon. Da ex-Ministro delle Telecomunicazioni del precedente governo Netanyahu si è conquistato una notevole popolarità con una riforma delle telecomunicazioni: ha liberalizzato il mercato telefonico, abbassando le tariffe di chiamate e sms, e con questa semplice mossa si è reso una fresca icona giovanile. Ma nonostante l’aria da ragazzo spaurito, è un politico abile, che ama giocare dietro le quinte, di quelli che nascondono il coltello nel fazzoletto di velluto. Un suo collega racconta che, alle sue prime ”parlamentarie” del Likud, Kahlon si aggirava per la sede del partito con l’aria poco sicura di sé, con un sorriso da ragazzo timido che deve saper stare per la prima volta in mezzo ai grandi. Nessuno si aspettava che sarebbe risultato il più votato tra tutti i candidati conservatori. Nessuno tranne lui, ovviamente. Dopo le scorse elezioni Netanyahu si era rifiutato di nominarlo Ministro delle Finanze e lui, senza clamore, si era ritirato dalla politica per dedicarsi all’insegnamento universitario. E naturalmente a lavorare per il ritorno in grande stile, tessendo legami politici e consolidando la sua immagine pubblica: proprio nei giorni scorsi ha fondato Kulanu (”Tutti noi”), un partito personale con cui punta a diventare il primo premier sefardita della storia d’Israele1 : obiettivo, secondo i sondaggi, niente affatto impossibile per lui.
Nonostante rappresenti un centrodestra soft rispetto al ruvido Netanyahu e abbia dichiarato di essere disposto a trattare con i palestinesi, Kahlon va più che d’accordo con l’attuale Ministro degli Esteri Avigdor Liberman: di origine moldava, Lieberman è uno dei principale esponenti dell’estrema destra, che si presenta frazionata lungo la spaccatura tra forze laiche e ultrareligiose. Il partito di Liberman è il laico ma fascisteggiante Beteynu, ”Casa nostra” — l’estrema destra è in ascesa, in Israele: ad ogni attentato o provocazione degli estremisti palestinesi, gli estremisti israeliani guadagnano un voto.
La politica dell’attuale governo ha avuto la mano pesante con gli arabi e ha diffuso tra gli israeliani un senso di minaccia continua che favorisce forze sempre più nazionaliste.
Liberman, astuto, potrebbe accordarsi con Kahlon per stritolare Netanyahu in una tenaglia – lui da destra, l’altro dal centro – per far fuori l’attuale capo del Governo e e accordarsi con il nuovo astro centrista sulla nomina del prossimo.
La verità, infatti, è che nessuno vuole più Netanyahu. È un leader forte e muscolare, che fino a poco tempo fa sembrava imbattibile: ma un sondaggio pubblicato pochi giorni fa documenta come il 60 % dei cittadini israeliani sia stufa del premier. Netanyahu non paga direttamente la sua feroce politica con i palestinesi ma la sua gestione dell’economia del Paese. Se fino a qualche anno fa il PIL israeliano cresceva spedito, oggi fa registrare una stagnazione non causata da un riflesso della crisi occidentale ma dall’isolamento crescente di Israele nel mondo — proprio per la brutalità mostrata nella gestione della crisi di Gaza e della questione palestinese in generale. Israele è soggetto a un boicottaggio sempre più soffocante (lo sa bene anche Scarlett Johanson, che qualche tempo fa ha rinunciato a sponsorizzare un’azienda israeliana in seguito alle pressioni del mondo dello spettacolo). In più, all’interno del Paese crescono le disuguaglianze. E il governo di Netanyahu non si discosta troppo da quello delle destre occidentali quanto a politica economica: uno degli scontri con Yair Lapid è esploso quando il Ministro delle Finanze si è opposto alla decisione del premier di ridurre le spese per le politiche sociali in favore di quelle militari. Lapid ha perso: la ratifica dell’atto è stata l’ultima azione del Parlamento prima che Netanyahu lo sciogliesse.

Il Primo Ministro non è però riuscito ad approvare in tempo la riforma per la quale è saltato il suo governo: la modifica dello statuto d’Israele in ”Stato della Nazione Ebraica”. Questo provvedimento, che piace molto all’ultradestra, anteporrebbe nella Costituzione e nella filosofia di governo del Paese la religione alla democrazia. Le scuole verrebbero incoraggiate a essere più filoreligiose nei loro programmi e i giudici ad ispirarsi alla Bibbia per le loro sentenze. Una riforma fondamentalista.
Ma il vero crimine del provvedimento sarebbe la definitiva ratificazione dell’esistenza di cittadini di serie A e una minoranza di serie B — quel 20% della popolazione araba che vedrebbe diminuiti i propri diritti diventando sempre più straniera a casa propria.
Già oggi Israele è uno stato a fortissima connotazione etnica e religiosa: basti pensare che sono state emanate leggi molto severe contro l’immigrazione, punendo con un anno di carcere i clandestini al fine di ”preservare l’ebraicità dello stato”.
Se venisse approvata, la riforma non farebbe altro che rendere sacro un triste dato di fatto: la discriminazione e i continui soprusi – troppi da elencare qui – verso la minoranza palestinese (20% della popolazione) residente in Israele, in concomitanza alla politica aggressiva in Cisgiordania e a Gaza. Se Netanyahu e la destra estrema non saliranno al governo la modifica costituzionale non verrà approvata: ma chiunque andrà al potere tra coloro di cui abbiamo parlato difficilmente porrà fine a questo stato di cose.
Stefano Colombo
@granzebrew
- I sefarditi – da Sefarad, Spagna – sono gli ebrei di origine mediterranea o mediorientale; gli ashkenaziti – da Ashkenaz, Germania – sono originari invece dell’Europa centrale e nella storia recente hanno avuto un ruolo predominante. Basti pensare che l’intero governo Netanyahu è composto da ashkenaziti [↩]