Del: 7 Gennaio 2015 Di: Giulia Pacchiarini Commenti: 1

Il retrovirus dell’immunodeficienza umana, conosciuto più comunemente come HIV è stato identificato per la prima volta nel 1959, in Congo, ma solo più di venti anni dopo, nel 1982, è stato correlato alla Sindrome da immunodeficienza acquisita, l’AIDS, letale ed estremamente contagiosa.

È noto come durante gli ultimi due decenni del novecento questa sindrome abbia causato migliaia di morti, per i quali non era disponibile né una cura, né una profilassi; le terapie palliative erano i soli elementi che la scienza sapesse fornire, curando i sintomi senza riuscire a giungere alla radice dell’infezione e lasciando la popolazione incapace di proteggersi e prevenire, incosciente dei rischi quotidiani o in balia di ipotesi discriminatorie1. Sin dall’individuazione della sindrome, infatti, molti fattori si sono alternati e sommati rallentando la ricerca scientifica, dall’iniziale contagio di strati sociali discriminati e isolati, alla difficile comprensione del meccanismo di infezione del retrovirus, alla diversità sintomatologica. Alcuni di questi fattori persistono ancora oggi ma altri sono stati abbattuti — aumentando la speranza di vita di chi contrae l’infezione.

A più di trent’anni dalla scoperta della sindrome da HIV/AIDS, le informazioni e i dati di cui è in possesso la comunità scientifica, condivisi da buona parte della popolazione mondiale, dovrebbero rendere il retrovirus — suddiviso in due ceppi, HIV-1 e HIV-2, il primo localizzato soprattutto in Europa, America e Africa centrale e il secondo tra Africa occidentale e Asia — meno letale e più difficile da contrarre. Oggi un caso di HIV – rilevabile con il test ELISA – può rimanere in fase di latenza clinica, quindi quasi priva di sintomi e rischi per l’individuo, anche per molti anni, durante i quali il virus si replica nel tessuto linfatico ma viene tenuto sotto controllo dalla risposta immunitaria ed eventualmente dai farmaci. In questi cicli di replicazione si sviluppano le mutazioni del retrovirus a cui il sistema immunitario dell’individuo ospitante tenta di adeguarsi per poter controllare e combattere l’infezione.

AIDS-2

Quando il livello di Linfociti T (CD4+), presenti del sangue scende al di sotto di una soglia critica, il sistema immunitario non è più in grado di difendersi da quelli che vengono definiti microrganismi opportunisti, che divengono fortemente patogeni. Sono questi microrganismi a rendere letale la sindrome, portandola al quarto stadio, conosciuto come AIDS e sviluppando infezioni come il sarcoma di Kaposi, la Toxoplasmosi del cervello, la Candidosi dell’esofago, della trachea, dei bronchi o dei polmoni.
Nonostante gli elementi che anni di ricerca hanno fornito, non esiste ancora una cura che interrompa il ciclo di replicazione dell’HIV, tuttavia vi sono alcune terapie combinate definite HAART o TARV in grado di tenere sotto controllo l’infezione ed equilibrare il numero di Linfociti T nel sangue.

Il più grande ostacolo contro cui continua a scontrarsi la ricerca scientifica e che la allontana dal raggiungimento di una cura efficace, è l’alta tendenza a mutare del retrovirus, che modifica la propria conformazione a causa di errori durante i cicli replicativi. Si tratta di cicli in cui il retrovirus non riesce a replicarsi in modo perfetto creando forme più o meno diverse spesso svantaggiose per il retrovirus. Una mutazione vantaggiosa però, pur essendo meno diffusa dell’opposta aumenta esponenzialmente la pericolosità dell’infezione, rendendola potenzialmente resistente ai farmaci o alla risposta immunitaria dell’individuo ospitante.

Proprio per questo la ricerca scientifica si è concentrata negli ultimi anni nello studio delle proteine Env, che costituiscono la membrana esterna del retrovirus dell’HIV, in grado di cambiare conformazione e sfuggire all’azione immunitaria. Recentemente, grazie a una nuova tecnica di microscopia, sono state identificate le forme che acquisisce il retrovirus prima di fondersi con una cellula dell’individuo ospitante. Si tratta di un passo molto importante perché permette di studiare la conformazione del retrovirus nell’atto di modifica, così da poter evidenziare anche i fattori esterni responsabili della variazione.
Concentrandosi su due ceppi dell’HIV-1, uno resistente e l’altro sensibile agli anticorpi, il team di ricerca ha già scoperto come quello sensibile assuma una con conformazione più vulnerabile al contatto con gli anticorpi, mentre il primo si manifesti in altre conformazioni più resistenti. Inoltre è stato identificato un tipo di anticorpi, i Broadly neutralizing antibodies (bNAbs) in grado di bloccare le mutazioni della conformazione del retrovirus: questa scoperta è particolarmente importante perché la possibilità di interrompere le mutazioni conformazionali permette alla ricerca di concentrarsi su una specifica conformazione e trovare per quella una cura efficace.

Questi e altri successi della ricerca si rispecchiano parzialmente nell’ultimo rapporto diffuso dall’Unidas – Joint United Nations Programme on HIV and AIDS – pubblicato lo scorso dicembre, che registra un declino nelle percentuali di coloro che contraggono l’infezione (il 38% in meno rispetto al 2001) mentre risulta più che dimezzato il numero di neonati contagiati verticalmente, ossia dalla madre. Tuttavia il rapporto aggiunge che in Europa il numero dei nuovi casi di AIDS non è mai stato così alto, 136 mila solo 2013, mentre in Italia vi sono state 3.800 nuove diagnosi. La percentuale negativa si riferisce soprattutto ai Paesi dell’Europa dell’Est dove si sta sviluppando la peggior epidemia presente nel mondo in questo momento, con un aumento esponenziale dei contagi.

AIDS collage

I fattori di maggior rischio in questi Paesi stupiscono e sconcertano perché fortemente legati alla presenza di “sieropositivi inconsapevoli”, ossia individui che contraggono e sviluppano l’infezione senza rendersene conto, e alla difficoltà di accesso ai trattamenti sanitari — maggiore anche rispetto a quanto avviene nel continente africano.

In Russia, in particolare, la diffusione del retrovirus avviene soprattutto tramite lo scambio di siringhe infette ed è quindi correlata all’alto consumo di droghe e alla quasi inesistenza di metodi di disintossicazione efficaci.

Secondo Michel Jazatchkine, nominato nel 2012 inviato speciale delle Nazioni Unite per l’HIV/AIDS in Europa orientale e in Asia centrale, l’epidemia avrebbe potuto essere ben più contenuta con efficaci programmi di riduzione del danno su larga scala, come l’utilizzo di metadone o buprenorfina, vietati in Russia dal 1997.
Inoltre, sino a metà del 2013, nel Paese esisteva un sistema centralizzato per il rifornimento di farmaci, di difficile accesso ma pur sempre vigente; tuttavia, nell’ultimo anno e mezzo, il Ministero della Salute russo ha delegato le responsabilità del progetto alle autorità regionali, provocando confusione ed enormi carenze sanitarie. Secondo molti pazienti i trattamenti sono stati sospesi per mesi, dando alla malattia la possibilità di progredire.

Non è poi da sottovalutare l’azione discriminatoria messa in atto su coloro che contraggono la malattia, l’ultimo caso eclatante è stato riscontrato in Cina dove nel villaggio di Shufangya nella campagna di Sichuan è stata ideata e portata avanti una petizione per l’espulsione di un bambino sieropositivo. La raccolta di adesione, organizzata dal nonno del bambino, è stata bloccata dal Ministero della Sanità cinese, che ha dichiarato in un comunicato che lo stato provvederà alle cure mediche del bambino, fornendogli anche un’educazione scolastica e una pensione. Inoltre sono state annunciate ispezioni in villaggi che come quello di Shufangya sono stati vittime dell’epidemia di HIV/AIDS, provocata dalle Banche del Plasma, per controllare che situazioni simili non si ripetano.

L’AIDS rimane anche nel 2014 una delle sindromi con la più alta mortalità, tra le più pericolose e debilitanti, ma la responsabilità della morte di chi contrae la patologia oggi non può più essere considerata unicamente del retrovirus. L’assenza di un’educazione sanitaria adeguata, la difficoltà di accesso alle cure – soprattutto in Paesi sviluppati economicamente – sono oggi i principali colpevoli, perché ormai questa patologia si conosce abbastanza da poterne dimezzare i casi. La presenza di un aumento di contagi, causati da disinformazione o da pregiudizi, e gli atti discriminatori rispetto a chi contrae la malattia rimangono una sconfitta sociale letale contro cui la scienza può fare poco.

Giulia Pacchiarini
@GiuliaAlice1

  1. Il primo nome dell’AIDS fu “GRID” – Gay related immunodeficiency []
Giulia Pacchiarini
Ragazza. Frutto di scelte scolastiche poco azzeccate e tempo libero ben impiegato ascoltando persone a bordo di mezzi di trasporto alternativi.

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