Del: 20 Gennaio 2015 Di: Arianna Bettin Commenti: 0

Il tour de force

10 gennaio. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu atterra, disatteso, all’aeroporto di Charles De Gaulle. Il suo arrivo – ne è consapevole – non era né previsto, né gradito.
Il giorno seguente viene lasciato a piedi dal pullman che avrebbe dovuto portarlo, assieme agli altri rappresentanti di Stato, alla marcia, e, disperso tra la folla, deve sgomitare per raggiungere la testa del corteo.
Le immagini infelicissime del Tour de France di “Bibi” fanno il giro del web, in Israele diventano virali: il presidente, abbandonato a se stesso, sbuffa, telefona, si aggira ramingo per il marciapiede guardandosi attorno annoiato, nell’attesa che un’anima pia venga a prelevarlo.

D’altronde, stando a quanto riportato da Haaretz, François Hollande era stato chiaro: per motivi di sicurezza (e per motivi politici) la sua partecipazione alla Marche Republicaine sarebbe stata inopportuna. E Netanyahu sembrava, per una volta, aver recepito il messaggio — non avrebbe messo piede in Francia, non avrebbe sfilato a braccetto con gli altri capi di Stato per le vie di Parigi, se ne sarebbe rimasto a Tel Aviv.
Il governo francese vuole evitare scivoloni, tutte le telecamere del mondo sono puntate sulla capitale, e c’è necessità di tenere il più possibile separati l’attentato del 7 gennaio dal conflitto israelo-palestinese, non solo per sottrarre l’episodio a facili strumentalizzazioni, ma per una questione di coesione interna al Paese.
Ma a Netanyahu gli equilibri e gli equilibrismi della diplomazia internazionale stanno stretti, e – voilà – nel giro di qualche ora arriva la sua adesione, o meglio, la conferma di una partecipazione senza invito.

Vous êtes Charlie, je suis Bibi.

L’Eliseo è costretto a tamponare l’insistenza del premier israeliano invitando in extremis anche il presidente palestinese Abu Mazen, con il quale erano stati presi i medesimi accordi.

Una scelta interessata

A conti fatti, la scelta di Netanyahu risulta eminentemente politica, non proprio il frutto di un irrefrenabile moto spontaneo di compassione e di solidarietà nei confronti del popolo francese, anzi, le sue dichiarazioni e quelle dei suoi alleati scomodi di estrema destra, il ministro degli Esteri Avigdor Lieberman e dell’Economia Naftali Bennett (titolare, fra l’altro, del curioso dicastero dei Servizi Religiosi) in merito agli attentati di Parigi vanno a logorare ulteriormente i rapporti già tesi con il governo di Hollande.
Proprio a Lieberman e a Bennett sarebbe da imputare la scelta del presidente di prendere parte alla marcia. Subito dopo l’annuncio dell’adesione dei due ministri, è arrivata di rimbalzo quella di Netanyahu, che non poteva lasciare la scena a leader di partiti diversi dal suo.
Non a due mesi dalle elezioni, non in piena campagna elettorale.

Da sinistra: Netanyahu, Lapid, Livni
Da sinistra: Netanyahu, Lapid, Livni

Sebbene i due facciano parte del governo e sebbene i due partiti da loro guidati, Israel Beytenu e la Casa Ebraica, siano alleati del Likud del premier, l’assenza di Netanyahu avrebbe lasciato loro una visibilità mediatica eccessiva e un’occasione di propaganda facile.
“Bibi” Netanyahu vuole la quarta legislatura, il tempo stringe, il 17 marzo si avvicina e il centro-sinistra sopravanza il Likud nei sondaggi: la campagna elettorale finisce per toccare, con buona pace di Hollande, anche i fatti di Parigi, anzi, proprio da lì prendere il via.

Campagna d’Europa

La morte nel negozio kosher dei quattro ostaggi appartenenti alla comunità ebraica parigina diventa il pretesto per invitare tutti i suoi membri all’alyah, l’emigrazione in terra d’Israele, prima nel corso della visita alla sinagoga della città (invito a cui però i fedeli hanno risposto intonando la Marsigliese), poi durante le celebrazioni dei funerali delle vittime, seppellite per sua scelta a Gerusalemme.

«Gli ebrei hanno il diritto di vivere in molti Paesi al mondo, in piena sicu­rezza. Ma c’è una sola terra che è la loro patria sto­rica e che li acco­glierà sem­pre a brac­cia parte. Israele è la vera casa di tutti noi».

La replica del primo ministro francese Valls è sdegnata e anche esponenti di spicco della comunità ebraica esprimono la propria ferma opposizione alle parole del premier.

Non perde poi l’occasione di collegare l’attentato alla questione palestinese, invocando l’unità d’intenti e d’azione dell’Occidente contro il terrorismo islamico: contro l’Isis, sicuramente, e al-Quaeda, ma anche contro Hamas, “rami dello stesso albero velenoso”. Poco importa che si tratti di organizzazioni distanti per origine e per fini, e che fra di esse vi sia anche una rivalità politica.
E spende parole dure nei confronti delle forze internazionali, in special modo quelle francesi, che finora avrebbero, a suo dire, sottovalutato il problema, che non disporrebbero di anticorpi adeguati a rispondere a simili offensive, a differenza di Israele.

Di più, tende la mano all’Eliseo, mettendogli a disposizione il Mossad — un’offerta che alle orecchie francesi suona più come una sfida.
Perché è una mano tesa anche a quel parlamento che poco più di un mese fa, il 2 dicembre, aveva approvato una mozione per il riconoscimento dello Stato di Palestina con larga maggioranza, allineandosi così a una tendenza generale delle nazioni dell’UE, impegnate in quest’ultimo anno proprio nella ridefinizione della condizione palestinese. Una ridefinizione che stava assumendo giusto nelle scorse settimane un profilo più concreto, tanto che il 17 dicembre lo stesso Parlamento Europeo aveva votato una mozione similare per il suo riconoscimento entro i confini stabiliti nel 1967, mentre la Corte Europea si pronunciava a favore della rimozione di Hamas dalla lista delle organizzazioni terroristiche.

Netanyahu non cela il do ut des: «Noi sosteniamo l’Europa nella lotta agli estremisti, è ora che l’Europa sostenga noi allo stesso modo». Non c’è neanche bisogno di specificare in cosa consista questo sostegno.

marche nomi

 

La questione palestinese

L’offerta di Netanyahu ha quindi radici più profonde, ben conficcate in Terra Promessa, dove lo attende una faticosa campagna dall’esito incerto, una partita interna al Paese che però si gioca anche sul suolo del Vecchio Continente e nel vasto panorama delle relazioni internazionali, in cui Israele, proprio per l’atteggiamento ostile e le richieste del suo premier, ha perso ultimamente molto terreno.

Netanyahu non è amato né da Obama, né dagli stati europei; non è particolarmente amato neanche in patria, ancor meno – ovviamente – oltre i suoi confini, in Medioriente.

Un problema relativamente grave: secondo gli analisti, a oggi Israele può contare su un vantaggio militare impareggiato e impareggiabile rispetto ai suoi antagonisti storici. Siria, Iraq e Libano sono attualmente sconvolte dagli attacchi dell’IS, che come al-Quaeda non sembra particolarmente interessato a un’offensiva contro lo stato israeliano, il regime del Cairo ormai sostiene apertamente Tel Aviv contro Hamas, Hezbollah ha subito perdite ingenti nel conflitto siriano e l’Iran non può essere considerato in questo momento una minaccia concreta.
Il cruccio del premier e il nodo fondamentale della campagna elettorale, dunque, è sempre la questione palestinese.

Se sul fronte interno il centro-sinistra spinge per ammorbidire le misure adottate dal governo in questi anni, proponendo alternative se non risolutive quantomeno umane, gli alleati di destra tirano il premier verso una linea ancor più dura e repressiva, mentre sul fronte estero la posizione di Netanyahu si fa sempre più complessa e imbarazzante.
La Corte penale internazionale dell’Aja ha infatti reso noto il 16 gennaio di aver aperto un’indagine preliminare per verificare possibili crimini di guerra commessi da Israele e da Hamas in territorio palestinese. Un provvedimento che difficilmente porterà a un coinvolgimento diretto di Netanyahu, ma che pesa come un macigno tanto sul suo passato politico, quanto sul suo futuro.

Arianna Bettin Campanini
@AriBettin

Arianna Bettin
Irrequieta studentessa di filosofia, cerco di fare del punto interrogativo la mia ragion d'essere e la chiave di lettura della realtà.
Nel dubbio, ci scrivo, ci corro e ci rido su.

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