Del: 12 Gennaio 2015 Di: Alessandro Massone Commenti: 1

Dal 6 al 10 gennaio sono stati registrati in Francia 15 attacchi alla comunità musulmana. Tre volte moschee e locali adiacenti sono stati assaltati con fucili, granate da addestramento, bombe fatte in casa. In Corsica è stata abbandonata una testa di maiale fuori da un centro preghiere con un biglietto, “La prossima volta sarà una vostra testa”.
In Italia la Lega si è espressa in un osceno volantinaggio sulle vetrine di locali islamici rievocando immagini della Berlino del 1933.

Nel pomeriggio di domenica, a difendere le stesse immagini d’odio, Emergency ha organizzato una manifestazione in piazza Duomo, per “Stare insieme.”
La comunità islamica di Milano si è unita alle celebrazioni.
“Domani pomeriggio saremo in piazza del Duomo per prendere le distanze dagli attentati terroristici di Parigi e manifestare la nostra solidarietà alle famiglie delle vittime”, ha detto Abdel Hamid Shaari, fondatore dell’Istituto culturale Islamico di viale Jenner.
“Stare insieme,” mentre la Lega defaccia i negozi e manifesta contro la costruzione di moschee, sotto urla animalesche di “Siamo in guerra.”

C’è da svenire dalla dissonanza cognitiva.

Dalla straziante giornata di mercoledì fino a ieri la scena politica bipartisan, la stampa e l’opinione pubblica si è prodotta nella piú viva, acuta e sprezzante frustata d’odio immaginabile.

Un odio tale che certamente non giustifica la violenza dell’attentato di Parigi, ma che silenziosamente normalizza l’idea del coinvolgimento occidentale in una moderna guerra di religione, e di cui gli spin doctor/agit-prop jihadisti sapranno fare del loro peggio.

La reazione occidentale, eretta su striminziti e impolverati pilastri-ideali di libertà di espressione e supremazia culturale, è stata tanto prevedibile quanto ingiustificabile. Tanto violenta quanto banale.

Primo pilastro
Libertà di espressione, satira e odio

L’opinione in Italia. Un piccolo appunto, purtroppo dovuto, ai tanti improvvisati estimatori della satira nell’opinione di destra e ai tanti altrettanto improvvisati estimatori delle caricature d’odio di Charlie Hebdo nell’opinione di sinistra: a giudicare dai precedenti della giurisprudenza italiana, una parte importante della produzione di Charlie Hebdo, incluse alcune vignette islamofobe che sono circolate in questi giorni, non sarebbe coperta da libertà di espressione.
Il diritto di satira non è contemplato nell’ordinamento italiano, al contrario di quello di cronaca e di critica. Non è garantito dalla Costituzione e da nessuna legge.

La questione è lasciata alla giurisprudenza e all’attività ordinaria della magistratura, che si è piú volte espressa sul fronte assimilando la satira all’ilarità — dagli anni Settanta ad oggi.
Come insegna il maestro Dario Fo, l’offendere è elemento fondante della satira, che la distingue dal piú moderato e servile sfottò.

La giurisprudenza italiana per questo non ha mai accorpato la satira al giornalismo, perché sarebbe impossibile e ingiusto applicarne gli stessi parametri, come quello di verità.

Quanto è richiesto in Italia perché un’opera sia riconosciuta come satirica e non come diffamazione è di rispettare il limite della continenza — la satira deve quindi rappresentare una forma di critica realizzata con tale mezzo espressivo. (Cass. Pen. Sez. V n. 2118/00)
Nel caso accostamenti volgari o ripugnanti e deformazione dell’immagine suscitino disprezzo o dileggio (Cass. Pen. Sez. V n. 2128/00), anche sotto forma di vignette e caricature (Cass. Pen. Sez. V n.2885/92 e Cass. Civ. Sez. III n.14485/00), non si può pretendere come scriminante per escludere punibilità l’esercizio di un diritto previsto dall’articolo 51 del codice penale italiano.
La Suprema Corte ha statuito nel 1998 che la satira “non si deve risolvere in un insulto gratuito anche se espresso in una parafrasi o in una similitudine più o meno fantasiosa, né risolversi in un banale mendacio idoneo a ledere la reputazione del destinatario” (Cass. 7.7.1998, n. 7990)

L’ironia scatologica di Charlie Hebdo con protagonista Maometto e varie caricature di arabi non-descript non risponderebbe al limite di continenza, ed è innegabile manifestazione di disprezzo. Precedenti indicano che la giurisprudenza italiana non la riconoscerebbe come satira.
Ma Charlie Hebdo è una rivista francese, e sarebbe scorretto valutare la situazione usando strumenti alla Francia alieni.
Un comportamento che dovremmo imparare a adoperare anche in altri contesti. Dei quali parleremo dopo.

Osserviamo allora cosa dice la normativa francese.

***

In Francia, Paese che potrebbe con buon titolo dichiararsi patria della stampa satirica, la situazione è piú complessa.
Il droit à la satire, considerato parte della liberté d’expression, è infatti confinante con un ben definito droit à l’image.

Un precedente copre le spalle alle caricature di Charlie Hebdo, la sentenza 2006 che aveva chiuso l’affaire Mahomet: l’Unione delle organizzazioni islamiche di Francia (UOIF) aveva denunciato il giornale per la pubblicazione delle vignette originate sul quotidiano danese Jyllands-Posten, ma il tribunale aveva negato loro soddisfazione.

Dalla marcia per Charlie Hebdo di Bordeaux, lezioni sullo “Stare insieme”
Dalla marcia per Charlie Hebdo di Bordeaux, lezioni sullo “Stare insieme”

È sufficiente guardare le vignette del Jyllands-Posten per capire che sì, i presupposti per una sentenza diversa non ci fossero. Le vignette, alcune violentissime, sono comunque manifestazione di un commento critico nei confronti di eventi e caratteristiche del mondo islamico.
Il caso sembrerebbe chiuso, ma le vignette di Charlie Hebdo seguono una formula scatologica molto piú vicina a quella dei fotomontaggi pornografici di cui fu vittima Sarkozy in una serie di copertine del giornale satirico Le Monte tra il 2009 e il 2010 — e quelle, anche in Francia, furono considerate constituaient une atteinte à la dignité de la personne humaine. Fu chiesto al magazine, qualsiasi vignetta pornografica venisse pubblicata, di autocensurarsi. Da questa sentenza possiamo trarre due conclusioni: che la realizzazione di vignette spinte, raffiguranti soggetti la cui persona pubblica non si è mai mescolata con l’intimità sessuale, sia considerato un attacco alla dignità umana, o che fare satira su un potente sia diverso che contro i deboli.

Improvvisi e inaspettati, gli episodi di mercoledì contro Charlie Hebdo e di venerdì al supermercato kosher sono tragedie che riempiono il cuore di disperazione.
Quello che l’attacco a Charlie Hebdo non fa è limitare in alcun modo la libertà di stampa. Anzi, quello a cui abbiamo assistito negli ultimi giorni, con l’esplosione delle vignette su tutte le prime pagine di giornali europei, è stato un abuso della libertà di stampa. In preda ad un raptus vendicativo, usando come scappatoia il loro essere parte di una notizia così drammatica, sono state pubblicate in massa immagini di odio razziale, immagini che, diffuse come satira sarebbero state contestabili in tribunale.

Mi si perdoni il paragone estremo — ma orribili pagine di Storia sono state scritte in precedenza da chi agitava la bandiera della libertà di stampa contro le minoranze
Mi si perdoni il paragone estremo — ma orribili pagine di Storia sono state scritte in precedenza da chi agitava la bandiera della libertà di stampa contro le minoranze

È raro poter guardare alla stampa americana come maître à penser, ma a volte avere un Oceano di mezzo aiuta a ragionare a freddo. Il New York Times, il Washington Post, AP e CNN non hanno pubblicato le immagini, subendo le peggiori accuse. Grossa è la differenza tra considerare lecite le vignette di Charlie Hebdo, posizione che come abbiamo visto è già relativamente discutibile, e diffondere immagini incendiarie.
L’incapacità dei media outlet di reagire con compostezza e di coprire la notizia con maturità è stata accompagnata da altrettanta mancanza di responsabilità e rispetto da parte dei politici, e l’odio si è diffuso istantaneamente in tutta l’opinione pubblica.
Le organizzazioni terroristiche islamiche non potevano chiedere niente di meglio.

Secondo pilastro
il primato culturale occidentale

La campagna d’odio apertasi come reazione istantanea all’attentato è stata bipartisan — sfacciata e crudele quella delle destre, leggera e involontaria quella delle sinistre. Gli episodi si sono susseguiti creando un vero inferno per i milioni di musulmani residenti in Europa. (44 milioni nel 2011)

Per i talent scout di Al–Qaeda e ISIS, l’ambiente non potrebbe essere il migliore.
Si può ripetere a un gruppo di persone che “Sono il nemico” e che siamo in guerra solo un numero finito di volte prima che finalmente se ne convincano, ma d’altro canto è altrettanto scorretto e fondamentalmente razzista pretendere che organizzazioni islamiche in giro per il mondo debbano prendere le distanze da “pazzi isolati”, quasi che aderire a una certa fede fosse un vizio fastidioso che l’occidente tollera, e verso il quale è necessario mostrare riconoscenza.

Parigi per la Pace
Parigi per la Pace

Il filo nero che unisce la destra e la sinistra europea è una fondamentale convinzione di fondo: che noi si detenga l’indiscusso primato culturale, che si abbia a che fare con barbari che vivono in case di sabbia.
Nella mattina di ieri 10 gennaio, il Presidente del Consiglio si è nuovamente esposto sull’argomento: “(L’autore dell’attentato, ndr) Non lo ha fatto solo per compiere un atto di terrorismo ma per provare a mettere in discussione l’identità stessa dell’Europa, il nostro modo di concepire la vita (…)”, Renzi avvisa di non lasciarsi ingannare “dall’atteggiamento cialtrone e maldestro di chi anche in Italia pensa che il contrario dell’identità sia l’integrazione: il contrario è la disintegrazione”, ma arriva alla conclusione sbagliata: ”La cultura è l’antidoto al terrore.”, la nostra cultura, sottinteso.

L’idea stessa di integrazione ha sottofondi razzisti,

come se dovessimo insegnare, novelli maestrini, la superiorità della nostra società ai poveri selvaggi che si asciugano sulle nostre belle coste.
L’unica speranza per un futuro non esplosivo è viceversa l’interazione — la commistione di culture diverse, che hanno solo da imparare in questo scambio, e nulla da perdere, perché l’identità culturale non è un magazzino con uno spazio finito.
È innegabile ad esempio che il paesaggio urbano delle vie di Segrate, Torino, e Roma sia stato influenzato e modificato dalla costruzione delle nuove moschee italiane, lo stesso destino dobbiamo augurare alla cultura di questo continente. Nel contesto di una società democratica e laica, dove lo Stato si è elevato a vero arbitro super partes, i presupposti per una vera fusione culturale ci sono — ma il processo è stato programmaticamente rallentato, o del tutto fermato.

Il mondo occidentale troppo a lungo si è concesso il lusso di avere due facce: in guerra aperta con l’Islam in terre esotiche, e sorridente, accogliente, col volto pulito in Patria.

Dall’altra parte, il concetto odierno di jihad, in contrapposizione al significato originario di “lotta interiore”, nasce nel contesto del risveglio islamico degli anni 70, contro il processo di occidentalizzazione degli anni precedenti.
A differenza di precedenti jihad combattute come guerre anti-colonialiste durante tutto l’800 e fino alla rivolta dei Basmachi, l’odierna jihad rende protagonista del proprio pensiero il panislamismo, un’idea assolutamente politica e che poco ha a che fare con la religione. Lo scopo: la creazione di una sorta di califfato federale capace di porsi come pari alle altre grandi forze internazionali e che ricalchi la confinante Unione Europea.
La questione religiosa è fondamentale come collante sociale, perché l’Islam è di tutti i musulmani, “sia quelli buoni che quelli cattivi”, ed è disumano chiedere a un popolo di scegliere l’occidentalizzazione, spacciata da integrazione, sopportando il nostro pregiudizio continuo, pur di prendere le distanze dai terroristi che strumentalizzano la loro fede.
A un discorso estremista, fondato su un programma politico e solo mascherato da cultura, rispondiamo nella stessa lingua, nello stesso modo — e poi chiediamo a chi sta nel mezzo che veda fantomatiche differenze.


Per questo è scorretto diffondere le vignette d’odio e santificare gli autori di Charlie Hebdo. Per questo è allarmante parlare di integrazione mentre altri parlano di guerra — è così che un popolo diventa due volte vittima, la propria religione aggredita sia in casa che da alieni ignoranti, che sorridenti muovono guerre sussurrando “Adapt or die”.

Finché l’Europa non imparerà a non temere il melting pot culturale, finché come società non impareremo a distinguere la libertà di espressione dall’odio, posizioni politiche che sfociano talvolta nella propaganda razzista, non abbiamo speranza per un futuro migliore.
In questi giorni non abbiamo fatto altro che garantire che episodi come quello di mercoledì si ripetano, abbiamo aperto spiragli perché profonde repressioni si scatenino contro innocenti, abbiamo dimostrato la realtà mai interiorizzata di non detenere nessuna bandiera di primato culturale.

Giovani sorridenti, col volto pulito e le lacrime agli occhi, marciavano nelle strade delle grandi città d’Europa, uniti da parole di cui abbiamo già abusato troppo, negli ultimi quattordici anni. “Libertà, democrazia.”
La stessa retorica che negli anni avevamo imparato a rifiutare ci ha circondati e sta soffocando qualsiasi forma di razionalità.

Così, mercoledì, ha vinto chi diffonde odio e intolleranza, perché tutti, anche chi mosso dalla piú cara ingenuità, ha diffuso la loro propaganda, la loro intolleranza, il loro odio.

Mercoledì hanno vinto i talebani europei.

Alessandro Massone
@amassone
Foto: fair use — Corriere della Sera Milano. Creative commons, CC-BY – Jean Baptiste Roux, Kelly Kline
Alessandro Massone
Designer di giorno, blogger di notte, podcaster al crepuscolo.

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