Durante le vacanze natalizie il mondo ha assistito a una guerra cibernetica tra Stati Uniti e Nord Corea — a causa di un film. Visto che l’attenzione dei più in quel momento era diretta verso il vitello tonnato del cenone, ci sentiamo in dovere di ricapitolare e analizzare le vicende che hanno coinvolto la Sony Picture Entertainment e il suo ultimo film, The Interview.
La mattina del 24 novembre 2014 la scritta «This is just the beginning» e l’immagine di uno scheletro accolgono i dipendenti della Sony Pictures Entertainment, dando il via a quello che i media definiranno subito il “Sony Hack”. Il gruppo di hackers si fa chiamare Guardians of Peace e nel giro di poco tempo, prima che i terminali fossero spenti, riescono a depredare 100 terabytes di dati dai server della Sony. Per rendere l’idea 10 terabytes potrebbero contenere più o meno 1200 film in alta definizione.
Il 28 novembre comincia a trapelare l’idea che l’attacco provenga dalla Corea del Nord, infastidita da una commedia che ha per trama l’assassinio del dittatore Kim Jong-Un. Con la circolazione dei file rubati durante l’hacking — tra i quali anche scambi di mail tra Michael Lynton (Sony CEO) e Amy Pascal (Sony Chairwoman), cartelle cliniche dei dipendenti e informazioni su vip vari — l’FBI apre un’indagine.
È però il 16 dicembre a segnare la svolta nelle vicende della major quando, con una mail, i GoP lanciano una minaccia terroristica legata alle proiezioni del film The Interview.
«We will clearly show it to you at the very time and places The Interview be shown, including the premiere, how bitter fate those who seek fun in terror should be doomed to. Soon all the world will see what an awful movie Sony Pictures Entertainment has made. The world will be full of fear. Remember the 11th of September 2001. We recommend you to keep yourself distant from the places at that time.»
È l’inizio di un circo mediatico e prese di posizione che alimenteranno il grande calderone ormai rinominato “Sony Attack”.
Il giorno dopo la minaccia, la Sony Entertainment annuncia che il film non sarebbe uscito il 25 dicembre come programmato. Molte voci reclamano i diritti contro la censura e la volontà degli americani a non piegarsi di fronte ai terroristi, ma una su tutte si alza dal coro: il presidente Barack Obama – dopo aver ricevuto dall’FBI la conferma del coinvolgimento della Corea del Nord – afferma chiaramente che la Sony ha commesso un errore ritirando il film dalle sale, aggiungendo «We cannot have a society in which some dictator someplace can start imposing censorship here in the United States».
Spezzato il grande sigillo istituzionale, la Sony decide infine di rendere disponibile il film The Interview su Youtube.

Gli ultimi sviluppi sulla vicenda provengono dalla Norse, azienda americana che si occupa di sistemi di sicurezza, la quale afferma che l’attacco è stato attuato da un ex dipendente della Sony; la teoria non è poi così azzardata visto il perfetto concatenamento delle vicende mediatiche — così perfetto da far pensare che solo qualcuno con un’accurata conoscenza dell’azienda sarebbe stato in grado di orchestrare un piano del genere.
I retroscena della vicenda rimangono comunque confusi e l’unica cosa che resta da fare è rivolgere la nostra attenzione all’oggetto del contendere ponendosi la domanda: «The Interview meritava davvero tutta questa attenzione?»
No.
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Nel 1983 Samantha Smith del Maine, anni 11, dopo aver scritto al neoeletto segretario del Partito Comunista Yuri Andropov, fu invitata a visitare l’U.R.S.S. per sfatare i preconcetti del capitalismo americano sull’Unione Sovietica. Ha seguito il suo esempio Maryana Naumova, atleta russa di quindici anni, che lo scorso giugno ha visitato la Corea del Nord dopo aver scritto una lettera a Kim Jong-Un, che l’ha invitata per smentire le falsità sul suo Paese.
È facile pensare che Seth Rogen e Evan Goldberg – i creatori di The Interview – abbiamo preso spunto da queste vicende per la realizzazione del film. La pellicola, infatti, racconta la storia di un produttore (Rogen) e un conduttore (Franco) televisivi che, stanchi dei soliti gossip da prima serata, decidono di accettare l’invito per un’intervista a Kim Jong-Un, in breve tempo però vengono assoldati dalla CIA per portare a compimento l’assassinio del dittatore.
Il percorso narrativo, comico e di apparente riflessione del film si divide in due sezioni: i Media e la North Korea.
«It’s the first rule of journalism, you give the people what they want»
«It’s not the first rule of journalism, i think it’s the first rule of circus»
Lo stesso gruppo di attori/registi/comici/sceneggiatori che in This is the end era riuscito a ribaltare stereotipi e canoni del sistema hollywoodiano in maniera sagace e divertente, ci riprova applicando lo schema al mondo dei media e dell’informazione, ma questa volta con scarsi risultati. Il duo Rogen-Goldberg invece di sfruttare a pieno le potenzialità della storia non fa che affogare – poche – guizzanti situazioni in un mare di battute fallocentriche.

Verso la metà della pellicola giornalismo e informazione lasciano spazio al tema centrale, la Corea del Nord, ma la musica non cambia. Anche in questa parte si nota un tentativo di mettere in luce – attraverso la comicità – i problemi della dittatura coreana, ma è proprio in questa fase che gli sceneggiatori commettono il loro errore più grande. Lasciandosi andare in un vortice di assurdità, lo spettatore si ritrova catapultato in un film che in realtà non è un film, ma un collage di sketch comici e videoclip musicali.
Forse non si può pretendere troppo da un duo che pochi film prima si interrogava sulle qualità chimiche di una busta di marijuana, ma si ha il sospetto che con The Interview abbiano messo a fuoco non il lato sbagliato, ma quello distorto della questione.
E fa riflettere quanto scritto da Adrian Hong su The Atlantic nell’articolo “North Korea: Not Funny”:
«The day will soon come when North Koreans are finally free, and liberated concentration camp survivors will have to learn that the world was more interested in the oddities of the oppressors than the torment of the oppressed.»
Ed è per questo motivo che il film non meritava, e tutt’ora non merita, l’attenzione che invece si è conquistato, The Interview non è diverso da Pineapple Express o This is the end e questo è il suo più grande difetto.
Quindi cosa rimane? Tante cifre e qualche previsione.
2.8 milioni di dollari in biglietti del cinema e 15 milioni di dollari nell’acquisto del film on line per un totale di 2 milioni di spettatori casalinghi in quattro giorni dalla distribuzione, 1 milione e passa di download illegali e il 54% di gradimento su Rottentomatoes.
Con queste cifre alla mano, l’unico vero cambiamento dopo il Sony Hack e The Interview non sarà certamente il crollo della dittatura nordcoreana e neppure una presa di coscienza da parte del mondo intero, ma più probabilmente un irrigidimento delle norme legate al web e sicuramente un aumento delle vendite on demand dei film.
Jacopo Musicco
@jacopomusicco