Del: 6 Gennaio 2015 Di: Redazione Commenti: 2

Su un albero c’è un uomo che stringe un ramo in bocca ma non si tiene attaccato con le mani e non tocca il tronco con i piedi. Qualcuno, ai piedi dell’albero, gli chiede: “Che cos’è lo Zen?”
Koan del Buddhismo Zen

«Che cosa fai a Capodanno?»1 è una di quelle domande che si fanno a proprio rischio e pericolo. Sei lì, tra il 24 e il 26 dicembre, in quel lasso di tempo piatto e circolare in cui si consuma l’harakiri gastronomico coi parenti serpenti, quando uno sconosciuto coi baffi — che da un paio d’ore a quella parte hai dovuto imparare a chiamare “zio” — te lo chiede a bruciapelo: «Che cosa fai a Capodanno?». Quest’anno, poi, non sapevo veramente che cosa rispondere dal momento che avevo deciso di passare il Capodanno in un monastero buddhista zen a Pagazzano, frazione di Berceto, provincia di Parma. Solo dopo ho capito che la domanda era mal posta. Più che «Cosa fai a Capodanno?», lo zio coi baffi mi avrebbe dovuto chiedere «Che cosa sei a Capodanno?». Perché senza essere non c’è un fare consapevole.
Ma cominciamo dall’inizio.

Sono alla stazione di Milano Centrale e devo andare in fondo ad uno di quei binari lontani, al cui confronto il binario 9 e 3/4 di Harry Potter è roba da pendolari2, alla ricerca di un treno che mi porterà fino a Parma. Lo trovo, ci arrivo e prendo un altro treno più piccolo3 che mi porta fino a Berceto, un piccolo paese disperso fra gli Appenini. Da lì, ho un passaggio da altre persone che come me sono dirette al monastero zen Sanbo-Ji.

Sono alla mia prima esperienza buddhista e ne so veramente poco ma un mio compagno di viaggio mi rassicura: «Fra la prima volta e l’ultima, non cambia poi così tanto».
Il monastero è composto da tre case, adagiate nella neve e nel silenzio che ammanta questo luogo, tanto bello quanto fuori dalle rotte turistiche usuali.

Da qui in poi, la narrazione deve lasciare un poco andare la prima persona singolare, poiché una delle prime cose che ci sono state dette è stata di dimenticarsi un po’ dell’ego, questo costrutto a cui siamo così pervicacemente attaccati.

Il primo appuntamento tutti insieme è nello Zendo, il luogo di pratica meditativa, con il maestro Tetsugen Serra che ci dà il benvenuto e ci spiega a grandi linee quello che ci attenderà nei due giorni seguenti.
Il maestro Tetsugen Serra, al secolo Carlo Serra, è stato ordinato monaco buddhista in Giappone con il nome del Dharma di Tetsugen al monastero Tosho-Ji di Tokyo dove è diventato discepolo dell’abate Ban Testugyu Roshi. Contemporaneamente, ha frequentato l’istituto di medicina tradizionale cinese fondato da Shizuto Masunaga, lo psicologo giapponese che ha approntato una tecnica di massaggio shiatzu che coniuga la medicina tradizionale cinese con le tecniche meditative zen. Inviato in Italia come missionario, il maestro Tetsugen ha fondato prima il monastero Enso-JI “Il cerchio” di Milano, poi l’eremo di montagna Sanbo-Ji, a Pagazzano.

E da allora, la sua attività di divulgazione della filosofia Zen è stata inarrestabile: ha scritto con lo psicologo del lavoro Stefano Verza il libro Management by Zen Koan dove coniuga la cultura dell’efficienza della filosofia zen con le pratiche manageriali per una migliore organizzazione aziendale, ha messo a punto il sistema Mindfulzen – che unisce zen e psicologia cognitiva – organizza seminari, incontri, ritiri a Milano e a Berceto, e lo scorso ottobre ha anche tenuto al Museo del Novecento una serie di incontri sull’arte (prima di diventare monaco – nella sua vita precedente si sarebbe tentati di scrivere  – si è infatti occupato di fotografia e di cinema).

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In questo lungo elenco di attività il maestro Tetsugen ha cercato di riportare quelli che sono i principi base della filosofia zen di scuola Soto4: ossia una grande attenzione alla praticità della vita e una profonda armonia con la natura, sullo sfondo di una concezione del tempo come “Qui ed Ora”, in cui il passato e il futuro sono soltanto delle nostre dannose proiezioni.

La praticità della vita è fare le cose bene, dare attenzione ad ogni nostro gesto quotidiano e questo è possibile solo grazie ad una ritualità che permea ogni aspetto della vita monastica per infonderle il giusto valore.

L’esempio più eclatante è il pasto. Dopo giorni di ininterrotta Grande Abbuffata/Desiderio di Morte sotto forma di paté d’anatra, i nostri pasti, completamente vegetariani (e sottolineo che non solo non ho sofferto la fame ma che anzi me li sono goduti più delle Grandi Abbuffate), erano scanditi da una serie di gesti per ridare consapevolezza al nostro atto di mangiare. A scanso di equivoci, non c’è nulla di New Age in quello che sto sostenendo: il cibo era veramente buono, una ricerca continua di sapori e di colori, e i pasti (compreso quello consumato in silenzio) mi hanno davvero restituito il senso del mangiare.
Nello stesso modo, ha funzionato la pratica di pulizia dei piatti, rigorosamente zen anche quella, come illustrato nel libro Manuale di pulizie di un monaco buddhista di Shoukei Matsumoto, dove si racconta di come un discepolo del Buddha abbia raggiunto il Nirvana spazzando il pavimento.
In ogni caso, per andare sul sicuro nell’illuminazione delle nostre anime, non ci sono stati fatti mancare dei lunghi (aggettivo forse poco zen, lo devo ammettere) momenti di meditazione zazen, pratica a cui mi sono avvicinato per la prima volta.

La meditazione seduta zazen si può fare essenzialmente in quattro posizioni: in ginocchio, alla birmana, mezzo loto e loto completo. Escluse le ultime due, che nella meditazione zen sono come le armi dei videogiochi che puoi sbloccare solo dopo che ti sei consumato i pollici sul joystick per ore ed ore, ho alternato con alterni successi la posizione “in ginocchio” e quella “alla birmana”.
Poi, va be’, ci sarebbero anche la posizione con lo sgabellino e quella con la sedia ma è come giocare coi trucchi al videogioco di cui sopra (apparte gli scherzi, queste due posizioni servono per gli anziani o per chiunque abbia problemi alle gambe).

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Se vi state chiedendo: «Qual è l’obiettivo della meditazione?», sappiate che si tratta di una domanda un paradossale, perché durante la meditazione devi innanzitutto evitare di pensare, che è evidentemente a sua volta un’altra azione paradossale poiché, come è ovvio, “pensare di evitare di pensare” è in tutto e per tutto una forma di “pensare”.
Quindi diciamo che la meditazione zazen non è una cosa semplice: richiede un sacco di tempo, pazienza, forza fisica (per mantenere la difficile postura) e concentrazione.
Nelle mie prove, posso dire di essere tornato a sentire parti del corpo che non pensavo più di avere, di aver migliorato la consapevolezza della mia mente («Dobbiamo essere noi a controllare la nostra mente e non viceversa» dice il maestro Tetsugen) e di aver provato a stare un po’ di più nel flusso del presente.

Prima di partire, temevo che la reazione dei monaci alla stanchezza5 – mia e degli altri ospiti – sarebbe stata tipo il maestro Pai Mei in Kill Bill 2 o al limite, se proprio gli avessi beccati in una giornata buona, tipo Ra’s Al Ghul mentre addestra Batman per entrare nella Setta delle Ombre. In realtà, i monaci e le monache zen che abbiamo incontrato a Berceto sono stati di un’accoglienza straordinaria. Chiunque può andare a trascorrere un periodo di pace e di pratica zazen presso il monastero di Sanbo-Ji, indipendentemente dal proprio credo o da qualsiasi altra discriminante.

Il Buddhismo zen è privo di dogmi e può anche capitare di incontrare un giovane ragazzo che voglia diventare monaco pur essendo ateo.

Nello stesso modo funziona anche il monastero “Il cerchio”, costruito nel bel mezzo di Milano, ricordando che il Buddha, a differenza degli altri santoni della sua epoca che si rifugiavano in completo romitaggio nella giungla, si posizionava vicino alle città poiché, attualizzando il messaggio, “si può meditare anche nel traffico”.
Questa assenza di dogmi, questa tendenziale apertura verso l’Altro6, permette allo Zen di essere una filosofia estremamente duttile, capace di infilarsi con facilità in ogni ambito dell’attività umana, dall’economia allo sport alla cucina.

zen e motocicletta

E questo è anche il motivo per cui la quarantina di persone che avevano deciso di passare il Capodanno a Sanbo-Ji formavano un gruppo quanto mai diversificato: si andava dal dottorando in economia sulla teoria dei giochi al maestro di Tai Chi, passando per un’erediera-artista.
È stato sicuramente un poco straniante, ma non in senso negativo, condividere con queste persone appena conosciute l’arrivo del nuovo anno, con il passaggio rituale dei 108 colpi di campana fatti risuonare sotto la porta del monastero per lasciare andare 108 cose dell’anno passato di cui volevamo liberarci.

Era mezzanotte, Nonno Gelo7 picchiava duro sotto lo zero ma i monaci zen, vestiti solo con le loro minimaliste tonache nere, sembravano non sentirlo, o più probabilmente lo sentivano tantissimo ma proprio per questo avevano imparato a concentrarsi su di esso, a gestirlo meglio e ad avere quindi meno freddo di me che mi ero intabarrato tipo Pif nelle puntate del Testimone ambientate in Groenlandia.
Dopo la cerimonia, torniamo nel refettorio (forse non l’ho ancora specificato ma in tutti i luoghi chiusi si cammina solo con i calzini o a piedi nudi — e si riesce a camminare tranquillamente a piedi nudi perché la pulizia delle stanze rasenta la perfezione) e dopo un profumato infuso camomilla e finocchio, andiamo a dormire.

La mattina seguente, arriviamo allo Zendo, il luogo di pratica meditativa, ci togliamo le scarpe ed entriamo con il piede corrispondente allo stipite della porta. Guardiamo il Buddha centrale negli occhi e ci flettiamo in avanti nel Mudra di Gassho. In questo gesto non si venera il Buddha come un idolo ma lo si saluta riconoscendo nei suoi occhi i nostri stessi occhi, la nostra auto-consapevolezza.

Poco dopo entra il maestro Tetsugen che inizia le cerimonie di benvenuto per il nuovo anno.
Leggiamo il gata dell’offerta del fiore e il gata dell’offerta dell’incenso.

Accompagnati dai suggestivi tamburi che risuonano dalle due parti opposte dello Zendo, buttiamo in un grande vaso un biglietto su cui abbiamo segnato quello che vogliamo tenere e quello che ci vogliamo lasciare alle spalle in questo passaggio d’anno.

«Non robe gigantesche» ci dice il maestro Tetsugen «perché come dice Lao Tse: “Anche un viaggio di mille leghe comincia con un solo passo.'”».
Sono stati diversi gli aforismi, i koan, le frasi paradossali e le storie che ci ha raccontato il maestro Tetsugen, dicendoci che gli piacerebbe essere ricordato “Come il maestro che raccontava le favole e non come il maestro che impartiva insegnamenti”.
Storie come quella della freccia avvelenata: «Se un uomo viene colpito da una freccia avvelenata e non vuole che gli sia tolta prima di sapere chi l’abbia lanciata, a quale casta appartenga, quale sia il suo nome, quale sia la sua famiglia, quale sia la sua statura, quale sia la sua carnagione, da quale paese provenga, il tipo di arco che usa, il tipo di corda, il tipo di freccia, il tipo di penne, il tipo di punta, ecc., costui morirà prima di conoscere tutte queste cose».

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A quel punto, non ci restava che andare a consumare il nostro pasto di festa: una esplosione di colori e di sapori. La cucina vegetariana è grande proprio quando riesce a metterti in bocca il sapore inatteso come quando scopri il gusto dell’anima sul fondo dell’insalata8.
Per la cronaca, c’erano anche delle bottiglie di vino. E abbiamo fatto un grande brindisi((Accontentando il pensiero avuto prima di passare dalla veglia al sonno, la notte prima: «Ma in fondo il vino è vegetariano, un brindisino lo potevamo pure fare».))

Mentre risistemavo le mie cose per tornare a casa, ho riacceso il telefono che avevo tenuto forzatamente spento per una tre giorni di detox tecnologico.Uno dei primi messaggi WhatsApp che mi sono arrivati era del fantomatico zio coi baffi. Diceva: «Qui stiamo per incominciare il trenino brasileiro. Ti invidio molto».

Davide Banis

  1. Insieme a «Quando ti laurei?», «Non è il momento di trovarti una fidanzata/o?»… []
  2. Arrivo davvero in un binario fuori dal tempo: c’è ancora una targhetta di metallo coi fasci littori. Quando li scalpelleremo via tutti? []
  3. Sopprimo per fini narrativi il racconto dei due treni soppressi e le relative peripezie. []
  4. Non proverò nemmeno a riassumere l’enorme varietà di scuole e di tradizioni che articolano il Buddhismo: al confronto l’ingarbugliatissimo albero genealogico della vostra famiglia a cui appartiene anche il suddetto fantomatico zio coi baffi è semplice e lineare come la pianta della metropolitana di Roma. Basti sapere lo Zen viene dal Giappone, con tutto quello che ne consegue. []
  5. Durante la meditazione dell’ultimo dell’anno (una mezz’oretta prima della mezzanotte), non ce la facevo proprio più e a giudicare dai respiri affannosi e dai continui movimenti felpati, non ero l’unico: molti altri compagni di meditazione erano stanchi. []
  6. Che poi, mentre ci si libera dall’Ego, non è nemmeno più così “Altro” da noi. []
  7. Non dimentichiamoci che qui siamo nell’Emilia Paranoica dei CCCP. []
  8. Lapsus. Volevo scrivere “Ananas” ma per quello che è il senso del discorso anche “Anima” va bene. []
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