Del: 23 Febbraio 2015 Di: Marta Clinco Commenti: 0

Marta Clinco
@MartaClinco

Solo qualche giorno fa, il 19 febbraio, le agenzie turche battevano la preoccupante notizia secondo cui miliziani dello Stato Islamico – cacciati da poco dalla città siriana di Kobane dall’offensiva dei guerriglieri curdi – starebbero tentando nuovamente il passaggio oltre il confine turco con l’obiettivo di compiere attentati contro le sedi diplomatiche del Paese. Questo è quanto riportato da un’informativa dei servizi segreti turchi del Mit e ripreso il giorno stesso dalla stampa di Ankara. Non serve leggere tra le righe, i numeri parlano chiaro: fino a circa 3.000 jihadisti, tra cui anche alcuni leader del gruppo, potrebbero passare – o essere già passati – in Turchia dalla vicina Siria e dall’Iraq. I principali bersagli sarebbero, in primo luogo, tutte quelle ambasciate dei Paesi compresi nella coalizione anti-ISIS disseminate tra Istanbul e Ankara in territorio turco.
Sempre in questi giorni, è stato finalmente raggiunto il tanto discusso e inaspettato accordo sulla coalizione tra i governi di Erdogan e Obama, che si impegnano ad addestrare e armare i combattenti dell’opposizione siriana allo Stato Islamico. «Non possiamo stare fuori dalla coalizione: abbiamo 1200 Km di confini condivisi con altri territori e siamo l’obiettivo di un milione e mezzo di rifugiati», afferma Erdogan riguardo l’intesa nelle dichiarazioni riportate da al-Jazeera.

Ankara è ben consapevole del fatto che la sua partecipazione a qualsiasi coalizione per combattere lo Stato Islamico non sarà esattamente una “passeggiata nel parco”. Lungo i confini della Turchia con la Siria e l’Iraq è difficile controllare e monitorare i traffici, di qualsiasi tipo: dal petrolio, alle armi, alla droga, agli aiuti umanitari, alle vite umane. E, d’altra parte, la posizione della Turchia è sempre stata controversa e problematica, non solo a livello geografico; tra le altre cose, basta ricordare di come Erdogan sia stato più volte accusato di appoggiare in Siria non solo i ribelli, come ufficialmente risulta, ma anche gruppi armati jihadisti, e di consentire o addirittura fornire loro un canale di passaggio sicuro in territorio turco. Secondo questa tesi, uno degli obiettivi sarebbe stato quello di far cadere il presidente siriano Bashar al-Assad – ritenuto da Erdogan il principale responsabile della gestazione, dello sviluppo e dell’affermazione dell’IS -– e di impedire inoltre la creazione di entità autonome curde, soprattutto in seguito alla liberazione di Kobane dalla presenza jihadista. Inoltre, solo dietro pressione dei governi occidentali quello turco ha finalmente rafforzato i controlli alle barriere, lungo il confine di terra e negli aeroporti.

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Ma cosa prevede esattamente l’accordo siglato a Washington?

Sarà fornito da entrambi i governi, americano e turco, un egual numero di “addestratori” che lavoreranno al fianco dei ribelli al regime di Bashar al-Assad, con l’obiettivo di plasmare dei veri e propri soldati anti-jihadisti. La formazione si svolgerà sicuramente in Giordania, dove è già stato allestito un nuovo centro di addestramento la cui apertura è prevista al più tardi fra tre mesi; sono invece ancora in corso le trattative e gli accordi per le postazioni da aprire in Arabia Saudita e Qatar, per cui verosimilmente sarà necessario più tempo. Per il momento, comunque, i soldati reclutati tra l’opposizione siriana sono circa 1200: l’obiettivo sarebbe quello di addestrare 5000 uomini l’anno nel corso dei prossimi tre anni, termine ultimo fissato per il compimento dell’operazione.

Ma la lotta al terrorismo islamico pare non essere l’unico scopo dell’intesa e delle operazioni tra Turchia e USA, se a riguardo Ashton Carter – il nuovo segretario della Difesa americano – afferma: «Le forze che addestreremo hanno come primo compito quello di sconfiggere lo Stato Islamico. Ma penso che con loro potremo creare le condizioni per rimuovere anche Assad».
Insomma, Erdogan non potrebbe chiedere di meglio: arrivare allo scontro diretto col più acerrimo dei nemici – a cui si ritrova legato in modo indissolubile per ovvie ragioni – ma con l’aiuto e il sostegno di una forte e solida coalizione internazionale. Il successo pare assicurato. Ankara, da contratto, non dovrà far altro che provvedere al supporto logistico e umanitario sulla base aerea di Incirlik, situata sul confine tra Iraq e Siria, e aiutare infine la coalizione con mezzi d’intelligence. “Al resto pensiamo noi”.

Questo accadeva il 19 febbraio. Solo poche ore dopo, nella notte tra il 21 e il 22 febbraio, si verifica il primo, vero intervento militare turco via terra dall’inizio della guerra in Siria.
Circa 100 blindati e 600 soldati, scortati da droni e caccia, sono penetrati per 35 km in territorio siriano, fino a raggiungere la tomba di Suleyman Shah, situata sulle rive dell’Eufrate, enclave turca fin dal trattato datato 1921. Erano lì custodite le spoglie del nonno del sultano Osman I. La tomba si trovava nella tormentata provincia di Aleppo, zona occupata e controllata dallo Stato Islamico da ormai più di un anno. Prima che l’intera struttura venisse fatta saltare in aria, i 38 soldati turchi a guardia del mausoleo sono stati evacuati e rimpatriati — fonti turche affermano che uno di loro sia morto nel corso dell’operazione, e che l’operazione sia durata poco più di sei ore. Pare inoltre che non ci siano stati combattimenti. I 38 soldati turchi, invece, si trovavano di fatto sotto assedio da otto mesi ormai. Il mausoleo verrà spostato a 180 km dal confine, sempre in territorio siriano, ma in una zona più facile da gestire e controllare.

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A seguito dell’incursione – di grande rilevanza, soprattutto simbolica – occorre fare qualche riflessione. Certamente l’incursione turca e la decisione di spostare le spoglie e rimpatriare i soldati non pare casuale, anzi: l’ingresso del Paese nella coalizione ha senza dubbio giocato un ruolo fondamentale, e forse finalmente la presa di posizione da parte del governo turco nei confronti dello Stato Islamico sembra netta o più chiara, almeno all’apparenza. Ciò non toglie che il fatto getti ombre ancora più fitte su quali siano stati fino a questo momento i rapporti tra Erdogan e il suo esecutivo e i jihadisti neri — i quali hanno sempre fatto proprio del confine turco il principale canale di importazione di risorse, tra cui quella preziosissima dei famosi foreign fighters occidentali.

E non mancano le proteste in casa: l’opposizione accusa infatti il governo di aver fatto un passo indietro, e di aver ceduto così un’altra parte di territorio nelle mani dei miliziani. Anche il siriano al-Assad ha condannato l’incursione turca nel nord del Paese, definendola una “aggressione evidente”, un’aperta dichiarazione di guerra, e che riterrà Ankara responsabile delle sue conseguenze. Non solo, il governo siriano ha affermato inoltre che il fatto che la tomba di Suleyman Shah non fosse ancora stata attaccata o violata dai combattenti dell’IS “conferma la profondità dei legami tra il governo turco e l’organizzazione terroristica”: sarebbe stato facilissimo occupare e conquistare la postazione turca, anche considerando il numero militarmente irrilevante degli uomini di Ankara presenti sul campo. Ma probabilmente qualsiasi impegno contro le forze turche avrebbe spinto Erdogan all’inasprimento delle misure di sicurezza per ostacolare il flusso di combattenti e di commercio transfrontaliero: uno di quei pochi lussi che il Califfo al-Baghdadi ancora non può permettersi.

Marta Clinco
Cerco, ascolto, scrivo storie. Tra Medio Oriente e Nord Africa.

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