Arianna Bettin Campanini
@AriBettin
Mancano settantasei giorni all’inizio dell’Expo e il suo futuro è ancora tutt’altro che definito.
L’unica cosa certa è la data d’inizio, che avanza a grandi passi, mentre i cantieri lavorano a ritmi forzati per tentare di recuperare tempo in extremis. Per tutto il resto, si procede a tentoni, di falla in falla, di toppa in toppa.
Motivi di preoccupazione non sono solo i numeri, le proiezioni sull’occupazione e gli introiti previsti – sin qui nettamente inferiori alle aspettative – né le quattro inchieste relative agli appalti. Non solo le tempistiche, gli scioperi ventilati per il 1° maggio o gli inquietanti banner apparsi sul sito dell’evento.
A novembre il primo bando per l’assegnazione dei terreni su cui sta sorgendo Expo è andato deserto, con grande stupore di tutti e per l’angoscia di chi, per comprarli, ha fatto debiti.
Arexpo s.p.a., che vede sedere nel suo consiglio d’amministrazione Regione Lombardia, Comune di Milano e Fondazione Fiera Milano come soci principali, inizia a sentire il fiato delle banche sul collo. Bisogna recuperare i 160 milioni di euro prestati da Intesa Sanpaolo, Banca Popolare di Sondrio, Veneto Banca, Credito Bergamasco, Banca Popolare di Milano e Banca Imi.
Urge un salvagente, e in fretta.
E fra i papabili acquirenti spunta l’Università Statale.
Il “peccato originale” di Expo
Perché ci si sia ridotti in questa situazione, a cercare disperatamente un’anima nobile disposta ad accollarsi alla modica cifra di 340 milioni di euro l’immensa area in zona Rho-Pero su cui si svolgerà la kermesse meneghina, è presto detto. Bisogna fare qualche passo indietro, fino al 2011, quando l’allora sindaco di Milano Letizia Moratti e il fu Celeste Formigoni decisero di allestire l’esposizione su terreni privati anziché pubblici. Gianni Barbacetto battezzò questa scelta “il peccato originale” di Expo.
Venne così creata Arexpo, che acquistò un’area di 1,1 milioni di metri quadrati per la maggior parte di proprietà della Fondazione Fiera Milano (che, come già detto, è anche socia Arexpo) sborsando 150 milioni di euro, 66 per la Fondazione, 50 per Belgioioso del Gruppo Cabassi. Un prezzo che fa a pugni coi 15 milioni pagati a sua volta, nel 2002, dalla stessa Fondazione per ottenere i suoi 404mila metri quadri, e che fa a pugni con il buon senso, visto e considerato che di terreni pubblici disponibili non ne mancavano.
Ma in tutto ciò quei 15 milioni, nel frattempo, sono gonfiati parecchio. In tasca di chi, è facile a dirsi.
Proprio ora che ci si accinge a portare in fondo questa gigantesca operazione immobiliare, però, i nodi stanno venendo al pettine, complice l’impietosa crisi finanziaria, che non risparmia il mattone.
Nessun privato dotato di buon senso, appunto, acquisterebbe in un momento economico simile un’area così vasta, in una zona periferica, con le restrizioni imposte dal Comune e dalla Regione sul progetto (da bando, la metà dei terreni dovrà essere lasciata verde, il resto edificato possibilmente a scopi pubblici) e con un prezzo d’ingresso fissato a 340 milioni.
E di fatto, nessun privato si è fatto avanti.
La miglior offerta
Dal flop di novembre l’attività circa il destino dell’area Expo si è fatta frenetica, sono state lanciate svariate proposte, le più diverse, dalla Città dello Sport a un polo tecnologico, una sorta di Silicon Valley milanese, ma fra queste una si fa in prospettiva sempre più concreta ed è quella esposta in un’intervista al Corriere della Sera dal Rettore della Statale Gianluca Vago: trasferire le facoltà di Fisica, Agraria, Chimica, Scienze e Informatica (ancora non è chiaro cosa ne sarà di Veterinaria) in un nuovo campus da 200mila metri quadri, con la creazione di un polo scientifico all’avanguardia, dotato di laboratori di ricerca, campi sportivi, residenze e auditorium. Un progetto che supererebbe il problema della ristrutturazione delle palazzine di Città Studi attualmente ospitanti le suddette facoltà, le quali a oggi necessiterebbero di interventi per 200 milioni di euro, e che potrebbe rilanciare l’università a livello nazionale, se non – perché no? – internazionale.

Una meraviglia (e un miracolo per Arexpo). Detto così, il trasferimento di 18mila persone da via Celoria a Rho – Pero sembra già realtà. Lo stesso Roberto Maroni ha aderito entusiasticamente all’iniziativa, dichiarando la totale disponibilità e il sostegno della Regione, «da ex studente della Statale, oltre che da amministratore dei lombardi.».
Purtroppo, come sempre accade, tra il foglio del “cosa” e il foglio del “come” – per non parlare poi dell’effettiva attuazione del progetto – c’è l’abisso.
Il foglio del “come” (e il portafoglio di chi)
I tanti vantaggi che il progetto porterebbe non possono chiaramente prescindere dal budget di realizzazione, un budget limitato a fronte di una spesa prevista di 400 milioni di euro e di una quota d’ingresso eccessiva per le tasche dell’ateneo.
Parte dei fondi dovrebbero essere recuperati dalla vendita delle vecchie strutture dell’università, eccezion fatta per la sede storica di Festa del Perdono; parte dovrebbero essere coperti da Cassa Depositi e Prestiti e Bei, la Banca europea d’investimenti. Ma non si può avere la garanzia che l’operazione riesca: non è possibile sapere chi acquisterà le sedi dismesse — sempre che vi sia qualcuno interessato.
Ad ogni modo, il progetto verrà vagliato in questi mesi assieme ad altre tre proposte – una città della scienza, un parco tecnologico e gli uffici dell’Agenzia del territorio – che, almeno idealmente, andranno a convivere nella zona Expo, e che, sempre idealmente, consentirebbero ad Arexpo di pagare il suo debito.
Proprio nel contesto del cda di Arexpo verranno valutati e integrati i quattro piani, in modo da arrivare a giugno con un disegno definito, pronti a lanciare un nuovo bando, appositamente modellato. Arexpo non può permettersi ulteriori passi falsi, deve liberarsi del suo “peccato” il prima possibile.
In quest’iniziativa, che nella sua bozza e nel suo intento è pregevole, l’università non diventi però l’erede di questo peccato, che non si presti a pagare le mancanze e la malagestione altrui: è un conto che abbiamo già pagato e probabilmente continueremo a pagare come cittadini; che non diventi il pretesto per farcelo pagare anche come studenti.