
Marta Clinco
@MartaClinco
Salt Pit. Cobalt. Dark Prison. Dungeon
Diversi nomi in codice per uno stesso orrore: è la prigione clandestina isolata nel centro dell’Afghanistan, il black site della CIA nei pressi di Kabul ricavato da un’ex fabbrica di mattoni.
Protagonista di diversi rapporti delle Nazioni Unite e delle associazioni per la difesa dei diritti umani che hanno denunciato gli estremi metodi di tortura cui sono sottoposti i prigionieri, oltre alle condizioni di detenzione subumane e degradanti applicate – il “pozzo di sale” afghano da 200.000 dollari veniva inaugurato a soli pochi mesi dall’intervento USA nel Paese. I primi detenuti ne varcheranno le soglie solo nel settembre dello stesso anno.
Nonostante i primi accordi prevedessero una sorta di cooperazione all’interno della struttura col governo locale, sin dall’inizio la prigione è stata invece costretta sotto l’esclusivo controllo dell’intelligence americana.
Nella prigione, nelle celle, le finestre perennemente oscurate della nuova Guantanamo mediorietale annullano il giorno e la notte. È l’immenso buco nero nel centro dell’Afghanistan. I detenuti vivono l’isolamento in 20 celle umide dai vetri oscurati provviste solo di un secchio per i rifiuti umani. Spesso d’inverno la morsa del freddo è letale.
Diversi sono i metodi di tortura cui sono stati sottoposti i prigionieri di Salt Pit. Sono tutti denunciati dal report diffuso il 9 dicembre dello scorso anno dalla Senate Intelligence Committee riguardo l’uso da parte della CIA della tortura in diversi centri di detenzione situati non solo nei pressi di Kabul, ma in tutto l’Afghanistan e in altre aree del mondo, dove Langley ha edificato i propri black sites del terrore.
Solo pochi giorni fa, il 25 febbraio, giungeva invece dalle Nazioni Unite la dichiarazione – forse solo apparentemente positiva e variamente riportata dalla stampa mondiale – secondo cui l’uso della tortura nei centri di detenzione afghani sarebbe in diminuzione, ma pur sempre molto diffusa. Il rapporto è il terzo di questo tipo in quattro anni, e si basa su interviste effettuate con quasi 800 detenuti, provenienti da 221 diverse strutture di detenzione, la maggior parte dei quali era stata condannata per reati legati al conflitto armato.

La torture raccontate dai prigionieri includono forti frustate con cavi elettrici, tubi e altri oggetti, percosse su tutto il corpo, torsione di genitali e minacce di esecuzione, violenza sessuale; le unghie venivano loro strappate, erano costretti a stare in piedi nonostante gli arti inferiori fossero rotti o fratturati, a bere quantità eccessive d’acqua e resistere in posizioni di forte stress, a subire scosse elettriche, sottoposti ad alimentazione rettale forzata (e non necessaria), oltre alla privazione del sonno e il tristemente celebre waterboarding (si ricorda il caso di Abu Zubaydah e di Khalid Sheikh Mohammed).
Con waterboarding s’intende un processo della durata in genere di 40 secondi che può essere ripetuto più volte durante uno stesso interrogatorio, a seconda della capacità di resistenza del prigioniero, il quale viene legato a una tavola inclinata, immobilizzato con i piedi più in alto della testa, un panno intriso d’acqua viene dunque collocato sopra il naso e la bocca, e dell’acqua versata continuamente in modo da bloccare il respiro, simulare l’annegamento e indurre panico.
Dopo il loro interrogatorio, alcuni detenuti sono stati costretti a firmare dichiarazioni e a confessioni video in cui negano di essere stati costretti a confessare.
Tutto ciò per quanto riguarda l’operato della CIA. Ma il più recente report di Human Rights Watch, Today We shall all die, pubblicato in data 3 marzo, punta il dito non solo contro le modalità disumane impiegate dall’intelligence americana, ma chiama in causa prima di tutto il governo del nuovo presidente Ghani: “Più di 13 anni dopo la fine del governo dei talebani, gli afghani continuano a subire gravi violazioni dei diritti umani da parte del governo, dei funzionari militari e dei loro agenti. I responsabili sono raramente chiamati a risponderne, e le vittime sono raramente in grado di ottenere un risarcimento legale. Questa impunità dipende dall’incapacità o mancanza di volontà del governo afghano e delle sue istituzioni, compresi militari, polizia e tribunali, a sfidare quegli uomini forti e quelle milizie che operano in gran parte del Paese.
L’amministrazione dell’ex presidente Hamid Karzai ha installato ai vertici del governo e delle istituzioni molti signori potenti, signori della guerra, giacché non era in grado di affrontarli – molti sono stati finanziati e hanno collaborato con le grandi forze internazionali, radicandosi ulteriormente nel tessuto politico della società afgana. Per questo l’impunità in Afghanistan è un problema sia nazionale che internazionale, la cui soluzione risiede non solo a Kabul ma anche nelle capitali straniere come Washington.”
E ancora: “Questo rapporto parla di alcune di quelle persone che commettono gravi violazioni dei diritti umani e che tuttora godono dell’impunità. I dati di questo rapporto includono accuse di uccisioni di massa, omicidi, stupri, torture, pestaggi, rapimenti, furto, e casi di detenzione arbitraria, senza evidenza di reato. Gli autori di questi abusi sono persone che ricoprono ruoli di autorità, o persone che operano con il loro appoggio. Occupano posizioni in quasi tutti i livelli di governo, da comandanti delle milizie locali alle file dei Ministeri”.

D’altra parte, l’impegno del neonato governo di Ashraf Ghani ad attuare un nuovo piano nazionale per l’eliminazione della tortura sembra trovare conferma nelle parole di Sediq Sediqqi, portavoce del Ministero degli Interni afghano: “Il governo ha intensificato gli sforzi per sradicare totalmente l’uso della tortura. Indagheremo ed esamineremo i risultati del rapporto, e perseguiremo coloro che hanno commesso questi crimini. Tuttavia, vorrei precisare che la tortura non è pratica attuata sistematicamente, ma impiegata solo da poche persone.” Il 35% dei detenuti intervistati aveva subito torture o maltrattamenti, 14% in meno rispetto all’ultimo rapporto pubblicato nel 2013 – ma non pare comunque un risultato sufficiente. Nel 2013, dopo il rapporto diffuso allora riguardo i centri di detenzione in Afghanistan pubblicato dalle Nazioni Unite, la Nato ha rivisto e ridotto il numero di strutture di competenza e controlli governativi presso cui avrebbe trasferito i prigionieri; eppure, a quanto registrato proprio dall’ultimo rapporto delle Nazioni Unite, 36 prigionieri hanno dichiarato di essere stati torturati in centri di detenzione afghani. Questo dopo essere stati detenuti dalle forze internazionali (o coinvolti in operazioni coordinate da forze internazionali). A tal proposito Brian Tribus, direttore degli affari pubblici per la missione Resolute Support della Nato in Afghanistan, ha ribadito l’impegno delle forze Nato e statunitensi nel Paese a perseguire qualsiasi responsabile di abusi o maltrattamenti subiti dai detenuti nelle carceri afghane.
Come spesso accade, si accumulano e prolificano le metastasi delle dichiarazioni, delle smentite, del ribattere della politica, governativa indignazione ai margini di report e testimonianze che tratteggiano una realtà, un incubo innegabile e inconfutabile per quantità di prove e documentazione.
Il rapporto delle Nazioni Unite denuncia sì il ricorso alla tortura, ma ancor prima il fatto che “la sicurezza afghana continua a restare inadeguata e manca di indipendenza, autorità, trasparenza e capacità”. Come dichiarato dalla direttrice dell’Unama per i diritti umani Georgett Gagnon:
“Questo è il principale motivo di preoccupazione: l’impunità rispetto alle torture fa sì che le torture continuino”.
È necessario dunque un cambiamento radicale, sia in termini di trasparenza, sia in termini di agibilità e possibilità di perseguire questi crimini, oltre che una forte condanna.
Pratiche disumane come quelle utilizzate a Salt Pit, in Afghanistan, sono adottate in diversi centri di detenzione in tutto il Medio Oriente e il Nord Africa, in aperta violazione dei diritti umani fondamentali. Nostro compito è continuare a parlarne: se questi crimini non verranno perseguiti, se i carnefici non verranno condannati, difficilmente il prossimo rapporto per l’anno in corso mostrerà una realtà diversa, migliore.