Del: 8 Marzo 2015 Di: Arianna Bettin Commenti: 0

Arianna Bettin Campanini
@AriBettin

«Sono per natura più deboli e più fredde, e si deve supporre che la natura femminile sia come una menomazione», sosteneva Aristotele.
«Maschio mancato», essere «difettoso e deficiente», mero instrumentum procreationis, proseguiva San Tommaso.
Insomma, un uomo sì, ma mal riuscito, inferiore nella sua diversità, debole, instabile, ferino, incapace di autogestirsi e autoregolarsi. Un uomo, diverso dal suo corrispettivo maschile solo nel suo mancare di qualcosa, tanto dal punto di vista fisico, quanto dal punto di vista mentale, la cui unica dignità era data dal fatto d’esser elemento passivo indispensabile alla procreazione.
La donna come versione minorata del sesso maschile.
Parrebbe una visione primitiva, eppure essa sopravvive implicitamente, talvolta subdolamente, non solo nell’immaginario collettivo e nei comportamenti quotidiani, ma addirittura nell’ambito che meno dovrebbe risentire di simili retaggi, ossia nelle scienze.
Strano a pensarsi, ma vero: la scienza occidentale e in particolare la medicina, stentano ancora a liberarsi da una bizzarra forma di sessismo, indesiderata e latente, con cui si accinge solo ora a fare i conti.
A pensarci bene, da simili premesse non poteva che derivare un atteggiamento distorto nei confronti della femminilità e metodi inadeguati di studio e di trattamento della dimensione psicofisica femminile. Perché storicamente il paradigma della medicina e della psicologia occidentale, da esse assolutizzato e universalizzato, è quello del maschio adulto caucasico, un paradigma che è tutto meno che assoluto e universale.

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In fondo, scavando per bene e spogliando ciascuna arte della propria aura, ciò che rimane è un residuo filosofico. Rimane un’idea, in questo caso l’idea di “uomo” nel senso più generico possibile, l’oggetto di studio proprio di tanta parte del sapere umano.
Quest’uomo, che sarebbe più appropriato definire “essere umano” (ma per una non casuale ambiguità linguistica i termini possono essere sinonimi), è stato fin da subito caratterizzato e definito nella sua maschilità e su di esso si è andato costruendo un vastissimo repertorio scientifico.
Solo di recente – questione di qualche decennio – ci si è accorti che l’archetipo umano su cui poggiava i suoi pilastri la medicina occidentale è carente, insufficiente, parziale. La semplice applicazione del suddetto repertorio alla donna è risultata inefficace. Perché – sarà banale – non siamo biologicamente e fisiologicamente identici. Talmente banale che però ancora nessuno ci aveva pensato, se non in relazione alle patologie più legate alla sessualità e alla gravidanza. Un approccio definito in seguito col termine “bikini view”, ossia quella visione che considera il paziente in quanto donna solo per quel che concerne i genitali, la funzione riproduttiva e le patologie mammarie.
Si è cercato di aggiustare il tiro, senza mai mettere in discussione l’impostazione metodologica.

La sindrome di Yentl: nel 1991 venne pubblicato sul New England Journal of Medicine un articolo a firma di Bernardine Healy, rinomata cardiologa statunitense. La Healy descriveva un fenomeno da lei battezzato come “Yentl syndrome”. Yentl è il nome della protagonista di un racconto di Isaac Bashevis Singer, Yentl The Yeshiva Boy, una ragazza ebrea che per accedere alla scuola rabbinica e studiare direttamente il Talmud, secondo il suo desiderio, è costretta a rasarsi i capelli e vestirsi da uomo.

Con questo termine Healy voleva indicare e denunciare la disparità di trattamento rilevata all’interno dell’istituto di cardiologia da lei diretto: meno ospedalizzate, meno sottoposte a indagini terapeutiche e diagnostiche, le donne anche in campo sanitario subivano una tacita discriminazione. Inoltre veniva rilevata una fortissima disparità nei campioni sperimentali per l’introduzione di nuovi farmaci sul mercato fra componente femminile, completamente assente o quasi, e componente maschile.
L’articolo suscitò un ampio dibattito, risollevando la spinosa questione femminile in quella che sembrava una zona franca, ossia la medicina.

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Nel solco di una tendenza che ha interessato ampi settori della ricerca medica negli ultimi anni, che vorrebbe un ritorno all’individuo, con un’attenzione particolare alle peculiarità che ciascuno di noi, per genetica e per stile di vita, presenta a livello organico, è nato così un nuovo, fecondissimo campo d’indagine: la medicina di genere, una delle tante reazioni a quel riduzionismo feroce che ha interessato l’intero mondo scientifico negli ultimi tre secoli, il quale ha rivelato tutti i suoi limiti nel momento in cui invece di semplificare ha iniziato ad amputare.

«Per troppo tempo le malattie, la loro prevenzione e terapia sono state studiate prevalentemente su casistiche del solo sesso maschile, sottovalutando le peculiarità biologico-ormonali e anatomiche proprie delle donne.»

Lo scrive Anna Maria Celesti, Responsabile Commissione permanente per le problematiche della medicina di genere nel Consiglio sanitario della regione Toscana, a oggi la regione più avanzata nel settore. «La medicina di genere è chiamata a limitare disuguaglianze di studio, attenzione e trattamento che fino ad oggi sono state a carico delle donne. Non costruendo una medicina al femminile e una al maschile, ma applicando il concetto di diversità per garantire a tutti, donne e uomini, il miglior trattamento possibile in funzione della specificità di genere».
Si deve però far attenzione a non sovrapporre genere e sesso: per genere s’intende una gamma di variabili che va ben oltre la semplice identità sessuale, ma che certamente la comprende quale fattore determinante. Gli studiosi sottolineano la differenza fra sesso biologico e sesso sociale. L’essere donna, esattamente come l’essere uomo, implica conseguenze che non possono essere ascritte esclusivamente al mero ambito biologico. Tutt’altro. Affianco ad esso si collocano fattori sociali, culturali, storici, economici, e con essi tutti i grandi gap che ancora sussistono nella nostra società. Fattori che causano stress, che determinano il nostro stato psicofisico e influiscono sulle nostre abitudini quotidiane, dall’alimentazione al fumo.

Cosa significa tutto questo, in parole povere? Significa che sulla salute di una donna, ad esempio, non influisce semplicemente il fatto di avere un figlio, ma anche tutte quelle difficoltà che ciò le porta, dall’ostilità sul lavoro al doversi far carico, non di rado in solitaria, della gestione domestica.
Oppure significa che, poiché per ragioni culturali fin dalla tenera età i bambini vengono orientati maggiormente verso l’attività fisica, mentre per le bambine questo avviene in misura molto minore, una volta cresciute le femmine saranno più esposte a tutta una serie di infermità che fra gli uomini non sono così diffuse.
Semplificando ancora, significa che donne e uomini possono reagire a certi farmaci e alle cure in maniera molto diversa, in ragione dei loro differenti processi biologici e della conformazione fisica.

Qualche esempio tecnico: in questi ultimi anni, numerosi studi clinici hanno osservato differenze di genere nell’efficacia antitrombotica e nel rischio emorragico delle terapie anticoagulanti ed antiaggreganti usate nella profilassi e terapia nella sindrome coronarica acuta e nella fibrillazione atriale. In relazione al rischio emorragico connesso con i trattamenti antitrombotici, che di per sé implicano la creazione di condizioni di difficile equilibrio fra l’effetto antitrombotico e quello emorragico, esistono forti elementi a favore di differenze di genere in rapporto, da un lato, ai valori inferiori, nella donna, di massa corporea, dimensioni degli organi e funzione renale, dall’altra ad una diversa funzione del sistema emostatico che si caratterizza per una attività proaggregante piastrinica più spiccata. Per la terapia antiaggregante in prevenzione primaria, il rischio di eventi emorragici importanti come l’emorragia cerebrale per le donne è inferiore a quello dell’uomo. Nelle situazioni acute, invece, in cui si impiegano contemporaneamente diversi farmaci antitrombotici, il rischio emorragico è maggiore per le donne.

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Le donne presentano di media una quantità maggiore di massa grassa. Ciò comporta una maggiore capacità d’assorbimento di tutti i farmaci lipofili, come le benzoadiazepine (per intenderci, gli ansiolitici).

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La prospettiva è completamente ribaltata per quanto riguarda l’osteoporosi. La malattia tocca prevalentemente le donne dopo la menopausa e per questo motivo i trattamenti sviluppati per contrastarla sono stati modellati su un tipo femminile. Per questo motivo la ricerca si sta concentrando sullo sviluppo di cure alternative e differenziate per i pazienti uomini, che spesso risultano meno sensibili a quelle sin qui adottate.

Le costrizioni cui siamo regolarmente sottoposti, donne in testa, sono una fonte di forte stress, sconvolgono delicati equilibri, e gli atteggiamenti che di conseguenza assumiamo possono renderci più vulnerabili a certe patologie piuttosto che ad altre.
Sarà forse anche per questo che, sebbene l’aspettativa di vita media femminile sia di circa cinque anni superiore a quella maschile, dagli studi emerge come le donne invecchino peggio e prima, dovendo convivere più spesso rispetto agli uomini con malattie invalidanti. La medicina di genere non solo si occupa della cura, ma anche di rintracciare la causa effettiva di certe differenze, compiendo un’analisi ad ampio raggio, coinvolgendo campi del sapere anche molto distanti dalle scienze inerenti alla sanità, come la sociologia o l’economia.

Questa valutazione globale del vissuto e delle specificità del paziente permette di tracciarne un profilo sanitario più accurato e calzante in relazione alle patologie di cui è portatore, scegliendo conseguentemente il trattamento più indicato, ma soprattutto può essere particolarmente utile nella prevenzione.
Il pregio della medicina di genere è quello di aver abbandonato una mentalità fintamente egualitaria, di aver scavalcato un preconcetto duro a morire – quello che vorrebbe l’adeguamento del paziente alla cura, e non viceversa – per lasciare spazio alle differenze individuali, dunque alle diverse esigenze, ammettendone l’importanza e, in questo modo, la dignità.
Riguarda certamente le donne, ma non solo. Questa concezione ribaltata della medicina va a vantaggio di tutti, uomini e donne, perché supera ogni forma di discriminazione, e si adegua perfettamente a qualsiasi tipologia di paziente, in base all’età, al sesso, all’origine e all’etnia, alle preferenze e allo stile di vita, liberandosi del pregiudizio atavico che spesso ci rende ottusi, persino in ambito scientifico: ciò che è diverso non è deviato né inferiore.

Link consultabili per approfondimenti:
Agenzia Regionale Toscana
AOGOI Emilia-Romangna
Gendermedicine.org
International Society for Gender Medicine
Sex differences in medicine – Wikipedia
European Gender Medicine

Arianna Bettin
Irrequieta studentessa di filosofia, cerco di fare del punto interrogativo la mia ragion d'essere e la chiave di lettura della realtà.
Nel dubbio, ci scrivo, ci corro e ci rido su.

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