Del: 12 Marzo 2015 Di: Francesco Floris Commenti: 0

Francesco Floris
@Frafloris

Lunedì 9 marzo, all’apertura delle piazze finanziarie europee, ha fatto la sua rumorosa irruzione il Quantitative Easing (Qe) della Banca Centrale Europea — quello che giornalisti e osservatori, in un eccesso di retorica machista e belligerante, da mesi definiscono il bazooka del Governatore della Bce, Mario Draghi.
Il piano attivo da lunedì, ma approvato dal consiglio direttivo della Banca Centrale Europea in data 22 gennaio 2015, prevede il massiccio acquisto di “obbligazioni emesse da amministrazioni centrali dei Paesi dell’area euro, agenzie situate nell’area euro e istituzioni europee” – come recita il comunicato stampa dell’istituto di Francoforte – per un valore intorno ai 1140 miliardi di euro a un ritmo pari a 60 miliardi di acquisti mensili fino al settembre 2016, e se necessario anche oltre quella data, al fine di riportare l’inflazione media europea in linea con i parametri previsti dallo statuto della Bce, vicina ma inferiore al 2%.

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In molti, sulla stampa e nei palazzi che contano, hanno salutato questo evento come la manna dal cielo contro la crisi economica che da sei anni attanaglia l’Eurozona, una svolta nelle politiche monetarie europee a guida tedesca che dovrebbe svolgere la funzione di volano per investimenti e consumi, pubblici e privati.
Secondo la narrazione entusiastica che va per la maggiore, il funzionamento del bazooka di Draghi dovrebbe essere questo: la Bce espande il proprio bilancio e per mezzo delle singole Banche Centrali Nazionali acquista titoli di stato qualificati con un rating non inferiore alla tripla B, ovvero adeguata capacità di rimborso anche se a rischio deterioramento, compiendo operazioni di mercato aperto — nell’esatta traduzione dall’inglese open market operations. Tali operazioni avvengono sul mercato secondario, cioè non direttamente alle aste per la collocazione di titoli di nuova emissione dei Ministeri del Tesoro, ma su quelli detenuti nei forzieri di investitori istituzionali privati, di fatto le grandi banche; così facendo esse si trovano in tasca decine di miliardi in nuova moneta con la quale finanziare prestiti o mutui a famiglie ed imprese, riattivando il circuito del credito e in un’ultima istanza l’economia reale. Inoltre, l’acquisto massiccio di obbligazioni di debito sovrano spingerebbe il prezzo delle stesse al rialzo (perché c’è tanta domanda) e i rendimenti al ribasso, incentivando gli operatori di mercato ad allocare le proprie risorse su asset finanziari più redditizi, come ad esempio i bond di imprese private stimolandole ad assumere e compiere investimenti.

Su questi presupposti si basa l’idea che dal 2015 l’Europa potrà finalmente uscire dal guado e assistere – quasi per magia – a un netto miglioramento dei fondamentali economici, fra i quali crescita del Pil e aumento dell’occupazione.

Sono molte e di varia natura le obiezioni che si possono muovere a questo approccio e ben presto si scoprirà che Re Mida non dimora ancora su questa Terra, e che se anche tutto ciò che toccasse dovesse luccicare non si tratterebbe certo di oro.

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Quantitative easing per alcuni
ma non per tutti

Il funzionamento del Qe prevede che gli acquisti di titoli vengano ripartiti in funzione delle quote di partecipazione delle singole banche centrali al capitale della Bce, il che significa che a trarne maggior vantaggio sarà la Germania, assieme a Francia e Italia, che nel loro complesso costituiscono il 44% del capitale totale. Si dia il caso che sui titoli tedeschi già oggi si paghino interessi bassissimi, lo 0,7% sul Bund decennale; addirittura sui Bubill con scadenza a tre anni emessi dalla Finanzagentur GmbH (l’agenzia del debito tedesca) i rendimenti sono negativi dall’estate scorsa: il che in buona sostanza significa che qualcuno ti paga per emettere un debito.
Se cercavate le ragioni per cui i così detti “falchi tedeschi” non abbiano preso il toro per le corna e impedito col sangue a Mario Draghi di varare il Qe, ne avete appena trovata una.

Rischio condiviso in solitudine

Come si legge anche nel comunicato stampa del 22 gennaio citato in apertura, l’acquisto di titoli – e quindi il rischio sugli stessi – sarà garantito per l’80% dalle singole Banche Centrali Nazionali e il restante 20% ripartito per il 12% in capo alla Bei (Banca Europea per gli Investimenti) e all’Esm (Meccanismo Europeo di Stabilità meglio noto come Fondo salva-Stati) e soltanto per l’8% dalla Bce. Questo significa che se uno dei Paesi che compongono l’Eurozona dovesse dichiarare default, le perdite andrebbero per lo più a gravare sulla Banca Centrale Nazionale e da ultimo sui contribuenti di quel Paese — con buona pace di chi vedeva nel Qe l’abbozzo di una politica volta a socializzare il debito europeo.

Inflazione portami via

Quando la Bce sostiene che ottempererà al proprio mandato garantendo la stabilità dei prezzi, che a Francoforte significa “vicina ma inferiore al 2% di inflazione”, si riferisce all’inflazione media della zona euro. Ciò non toglie che potrebbero verificarsi percorsi divergenti nelle dinamiche inflattive dei diversi Paesi che compongono l’aerea, percorsi divergenti che a ben vedere sono una delle principali cause di squilibrio che hanno mandato l’Eurozona a gambe per aria. Se l’inflazione dovesse crescere, per esempio, in Spagna ma restare inchiodata al palo in Olanda, quello che si verificherebbe è una perdita di competitività dei beni e dei servizi provenienti dal Paese iberico (perché costerebbero di più) — di fatto ristabilendo la situazione preesistente alla crisi che vedeva alcuni Paesi in deficit strutturale verso l’estero e altri in surplus.
Anche l’aggiustamento sanguinoso e socialmente fallimentare attuato in questi anni dai governi della periferia europea a botte di austerità, per risolvere i propri squilibri verso l’estero, verrebbe azzerato da uno scenario di inflazioni divergenti.

Per inciso, l’assioma che vede nella massa monetaria la causa necessaria e sufficiente dell’aumento del livello dei prezzi – in economia indicata come teoria quantitativa della moneta – si presta a non poche critiche da quasi un secolo.

Per gli studiosi è molto più rilevante andare ad osservare chi spende realmente quella moneta, fenomeno decisamente più legato alle politiche fiscali e di bilancio dei singoli Stati, ai mercati del lavoro e in generale alla capacità di spesa del settore privato come di quello pubblico.
Vala anche la pena notare come le recenti esperienze storiche (americana e giapponese) di Quantitative easing, spesso invocate come esempio virtuoso di successo, in realtà non mostrino dati particolarmente esaltanti dal lato inflazione.
La Federal Reserve americana ha lanciato e implementato tra il 2009 e il 2014 tre round di Qe, l’ultimo dei quali, inaugurato nel 2012, particolarmente consistenti in termini di volume monetario: l’inflazione ha seguito un andamento a onda passando dal -0,34% del 2009 (deflazione assimilabile al caso europeo odierno) rimbalzando al +3,16 del 2011 per poi riscendere a +1,62% nel 2013 nonostante le massicce immissioni di liquidità nel sistema.
Anche l’andamento dei tassi d’interesse di riferimento sul Bond decennale americano – che indica a quale prezzo il Governo federale può servire o rifinanziare il proprio debito pubblico – come quelli sui mutui immobiliari, non si prestano che a spurie correlazioni con le tranche di Qe. A riprova di ciò osserviamo come nella primavera 2014, quando la neo-governatrice della Federal Reserve Janet Louise Yellen ha prima lasciato intendere e infine annunciato al mondo che il Qe sarebbe stato gradualmente diminuito fino ad interrompersi, non si siano verificate fughe di capitali dagli Usa né tanto meno un esplosione dei tassi, che tutt’altro hanno continuato ad assestarsi sui minimi storici.

Secondo molti osservatori, l’effetto più eclatante del Qe americano è stato quello di alimentare forzosamente i corsi azionari, prima decapitati dalla crisi del 2008 a dal fallimento Lehman Brothers, andando a gonfiare nuove bolle che se e quando esploderanno potrebbero mettere nuovamente in ginocchio l’intero sistema. Un ulteriore effetto “imprevisto” al quale abbiamo assistito ha riguardato i Paesi Bric e più in generale i Paesi in via di sviluppo: le centinaia di miliardi di dollari immessi dalla Federal Reserve sui mercati sono andati ben presto a caccia di elevati rendimenti in giro per il mondo, fermandosi in stati come il Brasile e la Turchia, dando l’aleatoria sensazione che gli emergenti fossero in grado di trainare una ripresa mondiale, salvo poi scoprire le debolezze strutturali di quelle economie non appena la Federal Reserve ha annunciato la stretta monetaria e la fine dell’epoca dei “dollari facili”.
In Turchia, a titolo di esempio, la spaventosa crescita del miracolo economico è stata trainata, fra gli altri fattori, dal costante afflusso di capitali stranieri; afflusso che quando si è trasformato in deflusso e fuga dei capitali ha mandato il Paese in crisi di bilancia dei pagamenti, costringendo la Banca Centrale di Ankara a interventi difensivi, alzando drasticamente i tassi e sparando le proprie munizioni in valuta estera per difendere il cambio.
Quando si immaginano interventi di politica monetaria non convenzionale vale la pena di costringersi a pensare anche agli effetti degli stessi sul resto del mondo, invece di infilarsi un paraocchi e rinchiudersi nel proprio orticello di casa — altrimenti ogni polemica futura sulla speculazione, che non è un dato di malvagità umana (o almeno non solo) ma il “fisiologico” funzionamento delle dinamiche finanziarie, perde di credibilità.

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Draghi ci ha già provato una volta

Quando nel 2012 il Presidente della Bce Mario Draghi pronunciò la frase «Whatever it takes to preserve the euro and believe me, it will be enough», oltre a sfoderare una faccia da duro e una sicumera invidiabili, si apprestò ad annunciare anche la nascita di due programmi della Banca Centrale, due piccoli bazooka di prima generazione: il primo, l’Omt, Outright monetary transactions rimase di fatto lettera morta; si trattava di un programma di acquisto di titoli a breve scadenza dei Paesi in difficoltà macroeconomica potenzialmente illimitato, che avrebbe arrestato la speculazione e le scommesse sul fallimento dei debiti sovrani nella periferia europea — speculazione che si arrestò spontaneamente dopo il discorso tenuto a Londra da Draghi il 26 luglio 2012. Gli acquisti erano condizionati a una richiesta formale di intervento da parte dei Paesi in difficoltà, alla quale avrebbe fatto seguito un programma di aiuti finanziari previa realizzazione di vaste “riforme strutturali”. La lezione greca era ben chiara a chiunque e quindi di fatto nessun Paese chiese di accedere all’Omt in cambio di un sostanziale commissariamento.
Il secondo bazooka prese il nome di Ltro, Long term refinancing operation: la premessa è che per compiere le proprie operazioni, ogni giorno e ogni settimana le banche vanno sui mercati e chiedono o offrono in prestito soldi ad altri istituiti a determinati tassi d’interesse, che vengono successivamente comunicati all’EBF, European Banking Federation. Le medie dei tassi comunicati all’EBF vanno a costituire la serie dei tassi Euribor. Nella fase più acuta della crisi questo meccanismo si era di fatto inceppato, se non interrotto, per larghi segmenti del mercato bancario europeo, provocando quello che si definisce un credit crunch – una stretta del credito.
Con le Ltro la Bce si incaricava di organizzare aste di liquidità a tassi decisi di volta in volta, per gli istituti di credito europei in gravi difficoltà, chiedendo in cambio della garanzie, dette collaterali, quasi sempre formate da obbligazioni governative in molti casi di Paesi anche a rischio default – come nel caso greco. In totale la liquidità fornita dalla Bce agli istituti di credito ammontò a quasi 1000 miliardi di euro.

La speranza era la stessa che sottende oggi al Quantitative easing: liberare da crediti deteriorati il sistema bancario in modo tale che questo, sfruttando i nuovi spazi di manovra e la liquidità fornita, tornasse a svolgere il proprio lavoro pompando denaro nell’economia reale attraverso i prestiti.

Immancabilmente tutto ciò non si verificò: le banche con la nuova liquidità tornarono ad acquistare titoli governativi, facendo sì scendere gli spread sui debiti sovrani, ma di fatto lucrando sui differenziali fra i tassi d’interesse a cui si finanziavano presso la Bce e gli alti rendimenti dei titoli di stato, oltre a poter presentare agli azionisti bilanci positivi ed elevati requisiti di capitalizzazione, anche in vista dei così detti “Stress Test” della Bce e della futura Unione Bancaria Europea.

La svalutazione dell’euro

L’unico effetto annunciato ed effettivamente realizzato del Qe è quello di una svalutazione dell’euro sul dollaro americano, che dovrebbe trainare le esportazioni dell’Eurozona oltre Atlantico: in realtà la svalutazione è già stata in buona parte incorporata dai mercati, in parte perché avevano previsto la mossa di Draghi e in parte perché i tassi americani sono comunque più alti di quelli europei — attirano quindi più capitali che finiscono col rafforzare il dollaro sui mercati valutari.
L’argomento “svalutazione dell’euro” fa tuttavia a pugni con una delle principali motivazioni che ci portò nei decenni addietro a disegnare e infine costruire l’Unione economia e monetaria europea: si disse all’epoca che dovevamo costruire un area economica integrata per poter disporre di un gigantesco mercato interno – un bacino con oltre 400 milioni di persone – in modo tale da poter rispondere positivamente agli shock provenienti dall’estero in termini di domanda, esattamente come fu uno shock il crack della Lehman e relative conseguenze avvenuto il 15 settembre 2008. Oggi, al contrario, si sostiene che a dover trainare la crescita debbano essere le esportazioni e non la ripresa dei consumi e degli investimenti interni, che rappresentano il vero buco nero di domanda in Europa.
Lo si sostiene abbastanza avventurosamente senza un minimo di attenzione per i dati reali di cui disponiamo: il saldo della partite correnti e della bilancia dei pagamenti con l’estero è positivo – già oggi l’Eurozona esporta beni e servizi verso il resto del mondo (Usa, Regno Unito e Paesi europei fuori dall’euro) in misura decisamente maggiore a quanti ne importa. La posizione debitoria dell’Eurozona sull’estero non è un problema, almeno per noi.
In questo contesto forzare un svalutazione dell’Euro significa in buona sostanza scaricare i propri problemi di carente domanda interna sul resto del mondo. E in ogni caso un’area economica che decida di sopravvivere solo sulle esportazioni è destinata al fallimento del proprio progetto o all’impoverimento graduale ma costante dei propri cittadini: il Bangladesh vive sulle esportazioni, la Cina e l’India vivevano solo sulle esportazioni, anche se da qualche anno tentano una faticosa quanto lenta riconversione delle proprie economie con un occhio di riguardo anche per la domanda interna.
È un modello di sviluppo anche questo, ma prima di metterlo in atto bisognerebbe quantomeno chiedere ai cittadini europei cosa ne pensano di diventare bengalesi.

Conclusioni

Alla luce di queste criticità (ce ne sarebbero molte altre che non possono essere discusse nello spazio di un solo articolo) risultano azzardate le grida di giubilo che hanno infestato gli scritti di editorialisti speranzosi per professione, dilettatisi durante le loro omelie domenicali nell’inneggiare al nuovo genio Mario Draghi, che con la forza delle sue nude mani e il solo ausilio di una stampante-bazooka realizzerà un nuovo miracolo economico europeo.

L’esperienza storica nella sua brutalità ci dice altro, i dati di cui disponiamo anche.


Articoli di approfondimento utilizzati nella stesura di questo pezzo:

Un quantitative easing per i mercati azionari e non per l’occupazione – economia e politica
La politica monetaria di Draghi è efficace, anzi no – economia e politica
QE o non QE? Ovvero, l’inutile dilemma. – Noise from Amerika
LTRO: Long Term Refinancing Operation – Rischio Calcolato
La svolta di Draghi è comunque inutile (quindi dannosa) – Goofynomics
L’eurozona regola i conti con l’estero ma non con se stessa – Formiche
Vorrei ma è vietato. Note sul “quantitative easing” – SIDIBlog

Francesco Floris
BloggerLinkiesta
Collaboratore de Linkiesta.it, speaker di Magma, blogger.

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