Del: 24 Aprile 2015 Di: Ilaria Guidi Commenti: 0

Ilaria Guidi
@ilovemingus

A cent’anni dal genocidio armeno c’è ancora chi si rifiuta di chiamarlo col suo nome. Nonostante i dati storici parlino chiaro, il governo turco non accetta di riconoscere i massacri premeditati iniziati proprio il 24 aprile di cento anni fa, durante la Prima Guerra Mondiale — elemento, questo, che sicuramente favorì la libera azione dei Giovani Turchi.
Alcuni membri della società civile turca sono perfettamente consapevoli dei fatti che si cercano di nascondere, chiedono scusa agli armeni e partecipano alle commemorazioni del 24 aprile. Tuttavia, come spiega Aldo Ferrari – Professore di Lingua e letteratura armena presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia – si tratta essenzialmente di un’élite di intellettuali, perché per la maggior parte della popolazione turca il problema va ricercato alla base, nell’istruzione scolastica prima di tutto. Questa, infatti, si basa su manuali manchevoli, falsificati e pieni di luoghi comuni, e solo su questi il popolo turco può formarsi una propria opinione. Quindi essenzialmente il problema di fondo è una propaganda di stato che fa di tutto per nascondere eventi ormai noti al mondo intero.

In risposta al provvedimento preso dal Parlamento Europeo – in data 16 aprile – di riconoscere il genocidio armeno, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha affermato che “it will go in one ear and out the other”, come leggiamo su un articolo del New York Times.

 

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Dichiarazioni come questa lasciano interdetti, se si pensa che dall’episodio che ha causato la morte di un milione e mezzo di persone — un milione e mezzo di persone massacrate secondo un piano prestabilito che si poneva l’obiettivo di distruggere un popolo, con la sua cultura, la sua religione, la sua ideologia, e tutto ciò che ne potesse dimostrare l’esistenza — è passato un secolo. E se, cercando la definizione della parola “genocidio” sul dizionario della lingua italiana, troviamo qualcosa che non si discosta tanto da quanto appena elencato, allora risulta evidente definirlo tale. Il dizionario recita, infatti:

“Metodica distruzione di un gruppo etnico, razziale o religioso, compiuta attraverso lo sterminio degli individui e l’annullamento dei valori e dei documenti culturali”.
Ed è proprio questo che più umilia il governo turco, che con convinzione nega che quelle morti fossero state programmate.

“La posizione di negazione della Turchia non fa che causare continui danni alla Turchia stessa, perché quando viene fatta una legge che punisce praticamente la libertà di pensiero, viene punita tutta la popolazione”, ha affermato Pietro Kuciukian – Console Onorario della Repubblica di Armenia in Italia – in un’intervista rilasciata nel 2013 (a dimostrazione del fatto che il problema si ripropone da tempo). E in effetti ci sono stati diversi episodi di repressione nei confronti di turchi che hanno pensato e agito liberamente, cercando un dialogo con gli armeni.

Uno è il caso di Orhan Pamuk, scrittore turco accusato nel 2005 dalla magistratura del suo Paese per aver denunciato a una rivista svizzera il genocidio degli armeni. Fortunatamente in data 22 gennaio 2006, tra l’imbarazzo del governo turco e le pressioni internazionali, le accuse vengono ritirate poiché il fatto non costituisce reato. Il 12 ottobre dello stesso anno Orhan Pamuk riceverà il premio Nobel per aver “[…] scoperto nuovi simboli per rappresentare scontri e legami fra diverse culture”.
Più tragico è invece il caso di Hrant Dink, giornalista turco di famiglia di origine armena, fondatore e direttore della rivista Agos dal 1996. Egli si è sempre battuto per la ricerca di un dialogo tra turchi e armeni, e fu proprio questa la causa della sua morte. Prima venne condannato a sei mesi di prigione nel 2004, con accusa di “lesa turchicità”, poi nel 2007 ucciso da un sicario all’uscita della sede di Agos. È comunque probabile che dietro a questo assassinio ci fosse l’ombra dell’organizzazione di ultradestra Ergenekon, intenzionata a destabilizzare la Turchia. Ma resta inammissibile che un uomo venga assassinato per aver tentato di riconciliare due popoli. Oggi Hrant Dink è un Giusto, e il cippo a lui dedicato si trova al Giardino dei Giusti di Milano.

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È in gran parte merito di Giusti come Hrant Dink se questa strage non è caduta nell’oblio, e se un dialogo tra turchi e armeni, pur con grande fatica, è stato avviato. È merito, poi, dei discendenti del popolo armeno, curiosi di scoprire le proprie origini e desiderosi di rivendicare un’azione che ha rischiato di cancellarli dalla faccia della terra, come è il caso di Pietro Kuciukian. E ancora è merito di chi, rischiando la vita, ha voluto documentare la deportazione degli armeni con fotografie che parlano chiaro, come ha fatto il tedesco Armin T. Wegner, osannato dal popolo armeno nonostante i tedeschi non solo avessero appoggiato la decisione dei turchi, ma in qualche modo l’avessero anche favorita. E sono tanti altri i meriti, ma per quanti siano e siano stati, e per quanti siano i documenti che dimostrano che quei fatti siano realmente accaduti, purtroppo il passo decisivo non è ancora stato fatto: il Governo turco ancora si rifiuta di ammettere il genocidio del popolo armeno.

È inutile che oggi il presidente Erdogan inviti provocatoriamente la comunità armena a “mostrare i documenti” che testimoniano il genocidio: questo lavoro è già stato fatto. Se questo voleva essere un tentativo di fare un passo avanti nel riconoscimento di quanto accadde a partire dal 24 aprile del 1915, il tentativo è stato vano.

Risulta, infatti, una canzonatura di qualcosa che da canzonare ha ben poco.

 

Fotografie di Armin T. Wegner

Ilaria Guidi

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