
Clarissa Brivio
“Basta pane avvelenato”. È all’insegna di questo slogan che l’1 e il 2 aprile sono in programma le due giornate di mobilitazione contro lo stoccaggio dei rifiuti nucleari italiani in Sardegna.
Proprio in questi giorni, infatti, è prevista la pubblicazione da parte di SOGIN — Società Gestione Impianti Nucleari — dell’elenco dei siti a cui verranno destinate le scorie, che vede la Sardegna tra le (s)favorite della vigilia, per via delle sue caratteristiche morfologiche che ne fanno un territorio stabile e poco soggetto a fenomeni sismici, e per altri motivi più legati all’utile. Essa è infatti lontana socialmente e geograficamente dalla più ricca penisola, che verrebbe dunque tutelata con una scelta di questo tipo, ed è sempre più percepita non come un patrimonio naturale e culturale ma come l’enorme resort di un élite politica ed economica che crede di poterne disporre come se ne fosse a tutti gli effetti la proprietaria, fino a farne un territorio di smaltimento nucleare.
Inevitabile è stata la reazione della società civile e politica sarda, tra cui spicca la petizione No al sito delle scorie nucleari in Sardegna, lanciata dal movimento Sardigna Libera e rivolta alle autorità. La petizione ricorda come le scorie rappresentino un pericolo permanente, in quanto la loro estinzione non avverrà prima di centinaia o migliaia di anni, con danni gravi per la popolazione, soprattutto per le fasce più deboli: i bambini che vivono nei pressi di depositi nucleari, ad esempio, sono dieci volte più a rischio di leucemia rispetto ai loro coetanei che abitano lontano da essi.

Negare che lo stoccaggio delle scorie rappresenti un pericolo per l’ambiente e per la salute pubblica è quindi una contraddizione in termini: non si spiegherebbe altrimenti come mai nessuna regione italiana si voglia fare carico dell’annoso compito di “custodirle”.
Inoltre, è in Sardegna che esplode l’80% delle bombe in Italia ed è sempre lì che si trova circa il 60% della servitù militare italiana, per non parlare dei tre più grandi poligoni in Europa: si tratta di ben trentacinquemila ettari di terreno sottratti alla società civile ed interdetti alla popolazione. L’occupazione militare che seguirebbe il deposito delle scorie in Sardegna per proteggerlo e sorvegliarlo significherebbe un’ulteriore aumento di mimetiche – che renderebbe l’isola sempre più simile ad un presidio militare a cielo aperto.
Infine, è bene ricordare che il popolo sardo nel 2011 aveva già espresso con un referendum di iniziativa popolare un parere sulla questione dello stoccaggio delle scorie radioattive sul suo territorio, un parere giustamente sfavorevole. E allora di cosa stiamo parlando?