
Arianna Bettin Campanini
@AriBettin
Marinza è un piccolo villaggio albanese sperduto nell’entroterra del distretto di Fier. In linea d’aria dista poco più di 200km da Brindisi.
Conta appena 4000 abitanti, molti dei quali sono bambini.
Le vite degli abitanti di Marinza ruotano attorno a un unico centro di gravità: a pochi chilometri dal piccolo agglomerato di case sorge un immenso campo petrolifero onshore, il più grande d’Europa.
Un reticolo tentacolare in espansione, che s’insinua tra i campi e sembra avanzare verso Fier.
Residuo del regime comunista, da settantacinque anni vi si svolge una più o meno intensa attività estrattiva, a singhiozzo, in base al gestore, senza troppo badare a costi ambientali o umani, senza troppi complimenti, senza alcun riguardo per la salute di tutto ciò che di vivente c’è (o c’era) nei dintorni. Vero è che fino alla caduta del regime era persino vietato abitarvi attorno.
Gli abitanti denunciavano già nel 2005 una situazione insostenibile: dal suolo messo a coltura, all’acqua utilizzata per uso privato e per l’irrigazione, l’aria stessa – irrespirabile d’estate – tutto segnalava un livello d’inquinamento della zona incompatibile con la vita.

Solo un corposo investimento avrebbe potuto risollevare le sorti di una città abbandonata al suo destino e dell’impianto stesso, ormai obsoleto e non adeguatamente sfruttato.
L’investitore è arrivato, cilindro e bastone in mano e ha iniziato a succhiare dal terreno tutto quanto era possibile succhiare.
La Bankers Company – società canadese che dal 2004 sovrintende l’estrazione sostiene di aver fatto, dall’acquisizione dell’impianto, dei miracoli: bonifiche, rinnovamento e messa in sicurezza delle strutture, miglioramento delle prestazioni e dell’impatto ambientale.
Ma i fumi, le esalazioni, le polveri e i liquami versati ovunque, i tremori e le scosse periodiche sono rimasti, e l’1 di Aprile, senza che nessuno o quasi dall’altra parte dell’Adriatico se ne desse pena, parte del più grande campo petrolifero europeo è esploso.
Dopo piccoli smottamenti, ai primi boati Marinza è stata evacuata, mentre nubi di vapori non meglio identificati raggiungevano il centro abitato. Dopodiché, la questura ha aperto un’indagine per accertare le responsabilità dell’incidente e a Tirana ci si è dati un gran da fare per cercare di tamponare il problema.
Ma è da anni che vengono osservate e segnalate scosse sismiche anomale, di un’intensità oscillante tra 1.6 e 3 gradi della scala Richter, e lo sfruttamento intensivo dell’area non fa che aggravare rischi in caso sisma.
L’estrazione di gas e petrolio viene effettuata mediante un processo idraulico chiamato fracking o fratturazione, che consiste nell’iniezione d’acqua e composti chimici ad alta pressione nella roccia. Un procedimento che massimizza la rendita, ma mette in serio pericolo l’ambiente circostante – in particolare la tenuta idrogeologica del sottosuolo – e che per questo motivo è stato oggetto di accesissime polemiche. Polemiche che Tirana ha deciso d’ignorare sino all’incidente.
L’Albania possiede un potenziale energetico ingente, ricca d’idrocarburi che suscitano le attenzioni grandi compagnie. In quindici anni si sono scavati quasi 5000 nuovi pozzi, 145 solo nel 2013, di cui circa un migliaio sono già stati esauriti. E la statunitense Gustavson Associates afferma che vi sono ancora nel sottosuolo più di tre miliardi di barili di petrolio, all’appetibile profondità media di 3500 metri.

Un affare da leccarsi i baffi, considerati gli scarsi controlli, la normativa ambientale ancora lassa e carente e un Governo che concede molto a chi ha molto da offrirgli. Perché nonostante la ricchezza di giacimenti, gli investitori facoltosi e la grande campagna di promozione messa in atto dal premier Edi Rama, l’Albania rimane, assieme alla Moldavia, lo stato più povero del Continente con elevati tassi di corruzione riscontrati nella classe politica. Così si presta a farsi spremere come un agrume a prezzi stracciati pur di risollevare le sue sorti, magari fino a ottenere l’ingresso nell’Unione Europea, facendo sconti finanziari, ambientali e umani.
E in effetti per la Bankers Petroleum è andata proprio così: per otto anni, l’accordo siglato con l’allora Governo Berisha attraverso cui la canadese è entrata in possesso dello stabilimento di Patos – Marinza, stando a quanto denunciato in questi giorni da alcuni rappresentanti del Partito Democratico albanese (attualmente al Governo), avrebbe permesso all’azienda di ottenere un regime fiscale estremamente generoso. La somma che la BP dovrebbe allo Stato ammonterebbe a 700 milioni di dollari. Inoltre, la Bankers Company ha ricevuto circa 100 milioni di dollari dal Fondo Monetario Internazionale e dalla Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo (BERD) per opere di bonifica e ammodernamento della zona, ma di questi solo sei sono stati spesi a tale scopo. Degli altri a oggi non vi è traccia.
Il caso albanese è in realtà abbastanza tipico ed emblematico di ciò che sta avvenendo in molti paesi della vecchia Jugoslavia.
È una vera e propria corsa all’oro – all’oro nero dei giacimenti – per mare e per terra.
Non sono solo petrolio e gas a far gola, ma – facendo eco a un triste ritornello sanremese – tutti i luoghi e tutti i laghi. E tutti i fiumi, tutti i mari, insomma, tutti i corsi d’acqua disponibili e ancora incontaminati e tutte le cave, i pozzi, le foreste. Sono terre di conquista del settore energetico, preda di un nugolo di società intente a ripartirsi fette della ricca torta energetica albanese.
Mentre nell’entroterra si vanno concentrando impianti per energia rinnovabile – dighe che, per quanto giovino alla diffusione dell’energia verde, comportano notevoli ripercussioni sull’ecosistema locale e andrebbero edificate con criteri meno flessibili – gli occhi delle compagnie petrolifere sono puntati verso ovest, al largo dell’Adriatico.
Dopo alcuni rilievi condotti dalla compagnia petrolifera INA, suffragati dalle analisi della norvegese Spectrum, da cui risulta l’esistenza di riserve per 2,8 milioni di barili di gas e petrolio sotto il fondale del nostro mare, la sete di petrolio ha spinto un anno fa il Governo croato a suddividere in enormi lotti le acque che separano le coste da quelle italiane e ad affidarli al miglior offerente. Ventinove blocchi per un totale di 12.000km distribuiti proprio lungo il confine con le nostre acque.
La Croazia che vuole diventare una piccola Norvegia del sud Europa: sull’onda dell’entusiasmo il ministro dell’Ambiente croato Ivan Vrdoljak si è lasciato andare a paragoni forse avventati, se si considera con quale cautela Mirko Zelić dell’INA abbia sottolineato che delle riserve solo il 20-40% sarà sfruttabile.
Ma l’iniziale ebbrezza è diventata una vera e propria sbornia collettiva, e – righello alla mano – il Governo ha offerto al mercato il 90% del suo mare in pratici comparti da 1.000 – 1.600 chilometri quadrati, senza neppure aspettare il responso della Valutazione Ambientale Strategica (VAS). Il piano iniziale non prevedeva nemmeno dei limiti quantitativi rispetto al numero delle piattaforme e dei pozzi costruibili.
La penna del governo croato sfiora località e parchi nazionali di una bellezza che grida vendetta: dall’arcipelago delle Kornati, a sud della Dalmazia, alle isole Brioni di Tito, a pochi chilometri dal confine sloveno. Nature ancora sostanzialmente intatte e vergini che verranno irreparabilmente violate, che vivranno l’incubo costante che qualcosa possa andare storto e che le meraviglie in esse conservate scompaiano.

A gennaio 2015 le licenze assegnate erano già dieci: una licenza al consorzio di Eni e Medoilgas, sette al consorzio di Marathon Oil e dell’austriaca Omv, due licenze alla Ina e all’ungherese Mol. Ma mentre le sei industrie scaldavano i motori in vista della firma del contratto, che sarebbe dovuta pervenire il 2 aprile, il progetto è stato bloccato. Le pressioni da parte di Slovenia e Italia hanno fatto in modo che la scadenza dell’accordo slittasse e che entrambi i Paesi venissero inseriti nella VAS. Avremo tempo fino al 4 maggio per fare segnalazioni e rimostranze, dopodiché le trivellazioni potranno prendere il via. Non potremo evitarle e politicamente è giusto così.
L’unico fattore che potrebbe vanificare i sogni di Vrdoljak sarebbe un referendum popolare, ipotesi ventilata dal premier croato Zoran Milanović lo scorso marzo, di cui però a oggi non si ha che il flebile annuncio.
Nel frattempo il Governo di Zagabria ha aperto la caccia anche sulla terra ferma. Proprio in questi giorni si stanno assegnando le licenze per la ricerca di gas in un’area che va dalla Slavonia alla Croazia orientale.
Anche il Montenegro – della cui vivace politica energetica si è già parlato – non vuole rimanere escluso dalla grande spartizione. Immediatamente dopo il lancio del bando croato, ha provveduto a fare altrettanto e a buttare sul piatto le sue fiches, ossia ventisei blocchi marini da 300 chilometri quadrati pronti per l’uso. E, per non far differenze, ha ribaltato a sua volta le regolari procedure: prima ha indetto la gara d’appalto, poi ha iniziato a chiedersi se e come trivellare indiscriminatamente i fondali marini potesse ripercuotersi sull’ambiente.
Ma se i vicini hanno avuto almeno il buon gusto di porre una distanza minima di 6 km tra le isole e gli impianti, Montenegro ha alzato la posta e l’ha ridotta della metà: da bando, solo 3 km di acque potranno separare una piattaforma dalle spiagge di qualsiasi isola.

Ecco lo strazio e il grande scempio che colorerà di nero l’Adriatico – ci si augura solo metaforicamente – forerà i Balcani e gonfierà le pance delle grandi industrie petrolifere.
E, a conti fatti, prevederà un ritorno relativamente scarso per ciascuna nazione coinvolta.
Per fare un esempio a noi più prossimo, le royalties pagate dalle compagnie estrattrici sulle attività onshore in Basilicata sono del 7%, in Sicilia del 13%; ma sull’offshore è prevista una fascia esente da tasse fino a una certa soglia minima d’estrazione. A queste percentuali il ritorno è sostanzioso solo in presenza di grandi giacimenti, ma non sono questi i casi.
Le stime dello U.S. Energy Information Administration parlano, per quanto concerne la Croazia, di riserve accertate di 70 milioni di barili su tutto il suo territorio, per l’Albania di 170 milioni. Per fare un confronto, l’Italia disporrebbe di 560 milioni di barili, la Norvegia di 5,3 miliardi.
Ma certamente le riserve presenti tra le coste italiane e quelle balcaniche esercitano un certo qual fascino anche su Roma e le trivelle dei nostri concorrenti d’oltremare fanno al contempo paura e invidia, sebbene i 22 milioni di barili che potremmo estrarre dai fondali adriatici in sei anni potrebbero coprire all’incirca l’11% del nostro fabbisogno annuale, al più quattro mesi di consumi del sistema-paese.
Senza contare il fatto che le trivellazioni nell’Adriatico settentrionale sono attualmente vietate, dato che tra i vari effetti collaterali, rischiano di avere l’indesiderabile e odiosa conseguenza di far sprofondare Venezia.
Questo non ha impedito al Governo Renzi d’inserire nel decreto Sblocca Italia un paio di articoli controversi sulla regolamentazione delle politiche energetiche, ferocemente avversati dalle associazioni ambientaliste, dai sindacati e dagli enti locali.
Abruzzo, Calabria, Lombardia, Marche, Veneto, Puglia e Campania contestano gli articoli 37 e 38 del decreto, l’uno dedicato ai gassificatori, reti e depositi di stoccaggio per il gas, l’altro alla prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi. L’articolo 37 definisce i gasdotti di importazione dall’estero, i terminali di rigassificazione di Gnl, gli stoccaggi di gas naturale e le infrastrutture della rete nazionale di trasporto del gas, esattamente come le «attività di prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi e quelle di stoccaggio sotterraneo di gas naturale», di «carattere di interesse strategico» e costituirebbero «una priorità a carattere nazionale» essendo «di pubblica utilità, nonché indifferibili e urgenti».
Il carattere emergenziale di tali operazioni prevederà procedure burocratiche semplificate e più snelle, in contraddizione – stando al ricorso depositato in questi giorni dal WWF alla Corte Costituzionale – con il Trattato della UE, la Direttiva Offshore e il Protocollo Offshore della Convenzione di Barcellona per la protezione del Mediterraneo. Attraverso l’istituzione di un titolo concessione unico (attualmente ne servono due per iniziare le attività), consentirà di scavalcare il parere delle regioni, probabilmente in violazione all’articolo V della Costituzione, perché sarà lo Stato a scegliere se autorizzare ricerche, sondaggi e trivellazioni.
Viene prevista inoltre la trasformazione degli studi del Ministero dell’Ambiente sul rischio subsidenza in Alto Adriatico derivante dalle attività di prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi, in progetti sperimentali di coltivazione, in vista di un futuro sfruttamento.
Da Chioggia si leva il lamento del sindaco Giuseppe Casson:
“Da una parte lo Stato spende cifre enormi per la salvaguardia, come i 6 milioni di euro per il Mose, e dall’altra mette a rischio questo patrimonio mondiale con le trivellazioni, che comportano, secondo studi scientifici non smentiti, il rischio di subsidenza e di abbassamento per tutto il nostro territorio, che è fragilissimo. Le trivellazioni comportano il rischio di finire sott’acqua”
e prosegue: “Sono preoccupato, perché si continua a parlare di trivellazioni in Alto Adriatico e nessuno dice che vanno impedite. Queste decisioni sono schizofreniche. In linea di principio non ho nulla contro la decisione del governo di avocare a sé il settore energetico, ma non vorrei che ciò sottintendesse la volontà di bypassare la volontà degli enti locali. Qui non si tratta di essere contrari per mettere i bastoni tra le ruote del manovratore ma per un motivo razionale”.
Anche il Governatore veneto Zaia nei mesi scorsi ha lanciato l’allarme: “Queste disposizioni nazionali, calpestando tutte le competenze regionali in materia di governo del territorio, turismo, protezione civile, salute, produrranno irrilevanti benefici economici e sociali ed elevati pericoli ambientali per il territorio italiano, già caratterizzato da rilevanti rischi geologici e ambientali”.
Usando un po’ di buon senso e di sano realismo, nello sfruttare i giacimenti che abbiamo a disposizione non ci sarebbe nulla di male, anzi, l’Italia potrebbe trarne certamente dei benefici, almeno indirettamente. Abbiamo una delle legislazioni più stringenti al mondo in materia, qualcuno sostiene che lo sia troppo e forse non ha tutti i torti.
Tuttavia la creazione di corridoi preferenziali modellati ad hoc per fronteggiare la concorrenza di paesi che, come Croazia, Albania e Montenegro, stanno attuando politiche selvagge con un atteggiamento miope e pericoloso.
Proseguire per questa via avrà forse dei vantaggi, ma quale sia il prezzo è chiaro e non si tratta di un prezzo esclusivamente ambientale – che comunque sarebbe sufficiente a tirare in remi in barca e avviare una riflessione.
Si spera che la politica del fare, che ama riempirsi la bocca di parole come “bellezza”, “futuro”, “cultura”, “ambiente”, se ha a cuore la bellezza, il futuro, la cultura e l’ambiente del Paese, ridimensioni con giudizio le concessioni dello Sblocca Italia. Che intervenga,pur nel rispetto delle singole sovranità, nei progetti scriteriati dei nostri vicini e ridimensioni anche i loro sogni norvegesi – che non si limiti dunque solo a parlare in conferenza stampa ma agisca anche nel terreno che è proprio della politica.
Ma vale pur sempre l’antico luogo comune che fra il dire e il fare ci sia di mezzo un mare – l’Adriatico in questo caso.
PER APPROFONDIRE
http://bankwatch.org/news-media/blog/albania-oils-history-casts-long-shadows-over-locals