Giulia Pacchiarini
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Li si vede comparire con lo spuntar del sole, al fiorire delle prime margherite, accasciati su prati sempreverdi o precariamente deambulanti, sorretti da mani intrecciate e sguardi lobotomizzati, anticipati da risate argentine e soprannomi di dubbio gusto. Per secoli sono stati elogiati, citati, ritratti, desiderati, raramente criticati — sono gli innamorati, individui chimicamente dipendenti l’uno dall’altro, patologicamente schiavi di scompensi ormonali e parole non dette.
Tecnicamente l’innamoramento è una fase del ciclo vitale dell’essere umano – che coinvolge necessariamente un secondo individuo – in grado di ripresentarsi più volte nella parabola esistenziale e, per alcuni soggetti, diverse volte nell’arco di un breve periodo. Può essere preceduto o seguito da altre due fasi – la libido e l’attaccamento – che insieme all’innamoramento compongono quelle che l’antropologa Helen Fisher ha definito le tre reti primordiali del cervello, sviluppatesi per spingere gli esseri viventi alla riproduzione. Le tre fasi non hanno una cronologia determinata: come dimostra l’esperienza quotidiana l’ordine può variare a seconda della personalità dei soggetti coinvolti, del periodo e del luogo in cui si situa la loro esistenza.
In pratica quando si parla di innamoramento ci si riferisce a quel periodo di estasi a cui un soggetto fatica a sottrarsi indipendentemente da sesso, età, orientamento religioso, sessuale, etnia e variabili sociologiche di sorta. Di conseguenza è possibile affermare che in modo o nell’altro ogni individuo appartenente alla specie umana sia geneticamente predisposto a tornare periodicamente allo stato di larva sospirante dall’effimero equilibrio morale e psichico, che tutto dimentica di ciò che la circonda e tutto ricorda di chi riempie affannosamente i propri pensieri.
Si tratta di una condizione psicofisica che presenta una sintomatologia alquanto soggettiva, riassumibile in una serie di elementi comuni – accelerazione cardiaca, sbalzi d’umore, inappetenza, insonnia, correzione delle priorità, empatia, esclusività – finalizzati a modificare il comportamento del soggetto non sempre coscientemente.
In quanto condizione psicofisica umana, oltre a ritrovarsi al centro di componimenti di qualsivoglia arte, ha richiamato nel tempo l’attenzione di studiosi che, rifiutandosi di concedere questo brandello di biosfera alla sola poesia, ne hanno ricercato i meccanismi chimici, biologici e psicologici.
Nel 1996 in particolare fu la già citata Helen Fisher, posta alla guida di un’equipe di neuroscienziati e psicologi, a lanciare all’interno dell’Albert Einstein College of Medicine, un progetto per comprendere il funzionamento dei circuiti cerebrali e dei meccanismi biochimici durante lo stato di innamoramento. Il progetto avrebbe coinvolto alcuni candidati volontari – autodefinitesi innamorati e valutati tramite alcuni colloqui e questionari – sottoponendoli alla Risonanza Magnetica (RMN), in grado di registrare il flusso sanguineo nell’encefalo ed evidenziarne le zone attive, basandosi sul presupposto scientifico per cui le cellule cerebrali attive richiedano un maggior apporto di ossigeno e, di conseguenza, assorbano una maggior quantità di sangue rispetto alle sezioni dell’encefalo a riposo.
I risultati ottenuti misero in luce innanzitutto l’attività del nucleo caudato, porzione del telencefalo responsabile del movimento e soprattutto del “sistema di ricompensa del cervello” ossia il controllo delle sensazioni di piacere, la percezione di ansia a queste associata, lo stimolo all’apprendimento e l’istinto alla motivazione.
Venne quindi confermato che gli innamorati provano effettivamente piacere alla vista del proprio partner, allo stesso modo, la caparbietà con cui vengono compiute azioni generalmente considerate estranee alla propria indole trova una ragione biologica in quell’istinto alla motivazione tanto incomprensibile dall’esterno — la volontà di trovare speranza in apparenti cause perse.
La seconda scoperta rilevante fu l’attività della Zona Ventrale Tegmentale (VTA), localizzata nel mesencefalo e delegata alla sintesi della dopamina, neurotrasmettitore poi distribuito in diverse zone dell’encefalo tra cui il Nucleo Caudato.
Un anno dopo, nel 1997, Wolfram Schultz identificò alcune delle proprietà neurologiche associate all’intensa attività cerebrale della dopamina e venendo a conoscenza di questi studi, la Fisher li correlò immediatamente al proprio lavoro. Concentrazione, determinazione, comportamenti indirizzati ad assolvere uno scopo preciso, impulso all’apprendimento di nuovi stimoli, questi comprovati elementi forniscono sostegno scientifico – e giustificazione morale – alle sensazioni e agli aneddoti che ognuno dei candidati all’esperimento aveva dichiarato. Tra questi possiede singolare fascino l’aumento della capacità mnemonica, che spiega l’inquietante inclinazione che porta il soggetto colpito ad immagazzinare continuamente informazioni riguardanti il beneamato, dagli appuntamenti quotidiani – per potersi far trovare al posto giusto al momento giusto – alle parole dette – ma soprattutto quelle non dette ma che quell’espressione facciale non poteva che suggerire – ai momenti trascorsi insieme – perché si possano ricordare e ripetere e ripetere e ripetere ad amici pazienti come a disgraziati sconosciuti.
Inoltre, la dopamina è connessa anche al meccanismo di preferenza, che porta chi ne è soggetto a illudersi che il proprio partner possa essere unico, originale e insostituibile, impone una fedeltà chimica a cui è difficile sottrarsi malgrado eventuali difetti dell’altro o tentazioni da parte di tutti gli altri.
L’effetto di questo sorprendente neurotrasmettitore riesce anche a dare motivazione clinica ai deliri allucinogeni che colgono il vulnerabile innamorato in assenza del partner: ansia, sensazione di pericolo, paura, non sono altro che fastidiose conseguenze dell’aumento di dopamina.
Questo comporta maggiore apporto di sangue all’encefalo, maggiore energia e convinzione nel portare a termine i propri scopi. Pertanto in preda a una sbornia da dopamina un innamorato non saprà spostarsi dal luogo di un appuntamento mancato, o smettere di insistere per ottenere spiegazioni in merito a un torto, un’apparente offesa, un piccolo sgarbo ingigantito dalla prospettiva di un amor perduto.
Similmente, alti livelli di noradrenalina e bassi valori di serotonina influiscono sulla psiche di un innamorato, provocando quello che in gergo viene definito “pensiero invadente” ossia il costante richiamo all’altra persona, le fantasticherie, i ricordi, le libere e poco logiche associazioni con tutto ciò che in qualche modo rappresenta il partner.
Ognuna di queste suggestioni chimiche è provocata dalla presenza o dal pensiero di una seconda persona, prescelta tramite meccanismi della psiche, docile alle influenze dell’ambiente esterno, elaborati sin dall’infanzia e, secondo alcuni studiosi, anche da caratteristiche genetiche come la composizione del proprio sistema immunitario.
Ebbene, l’evoluta e civilizzata specie umana è quindi prigioniera della propria essenza fisiologica?
In parte sì — le sensazioni, le emozioni sono indipendenti dalla singolare volontà, non possono essere provocate, non possono scomparire per puro desiderio. Ciò che è permesso fare è scegliere quando abbandonarsi agli impulsi, a seconda di limiti soggettivi più o meno labili, nella certezza che in un modo o nell’altro il proprio apparato nervoso sappia trovare una soluzione, o perlomeno un’alternativa chimicamente ineccepibile.