
Corinne Barbieri
Quando Lucio Dalla cantava «Com’è profondo il mare », di certo non pensava ad un mare di plastica soffocato dai rifiuti. Sì, perché nel cuore dell’Oceano Pacifico, non lontano dalle acque cristalline delle Hawaii – tra il 135° e il 155° meridiano Ovest e fra il 35° e il 42° parallelo Nord – si trova un’ immensa isola di rifiuti, meglio conosciuta come “Pacific Trash Vortex”.
Nel film documentario Plasic Pradise: The Great Pacific Garbage Patch, proiettato in anteprima nazionale lo scorso 18 marzo presso l’Acquario Civico di Milano, la regista e protagonista Angela Sun cerca di approfondire, indagare e sensibilizzare l’opinione pubblica su questa emergenza ecologica, di cui senza dubbio c’è poca informazione.
L’indagine parte dalle meravigliose spiagge delle isole hawaiane che da anni vengono sommerse da rifiuti provenienti da ogni angolo del mondo: si possono trovare scarpe, bottiglie, giocattoli, reti da pesca, vasche da bagno, copertoni: la lista potrebbe continuare all’infinito.
Accanto a questo spettacolo degradante ne viene ripreso uno ancora peggiore, quello dei tantissimi uccelli marini morti a causa della plastica ingerita — l’immagine delle carcasse col ventre pieno di frammenti di plastica fa rabbrividire.
Le Hawaii si trovano in una posizione geografica costantemente esposta ai venti alisei e alle potenti correnti del Pacifico, queste trasportano parte dei riufiuti che andranno poi a confluire nel Pacific Trash Vortex. L’impegno dei volontari nella raccolta dei rifiuti di queste spiagge risulta essere un lavoro senza fine, nel giro di poco ogni spiaggia ripulita si riempie di nuovi cumoli di rifiuti.
Secondo il NOOA (National Oceanic and Atmospheric Administration), che nel 1988 pubblicò i primi risultati delle ricerche sul Pacific Trash Vortex, questo agglomerato attualmente contiene 3,5 milioni di tonnellate di immondizia che dalla superficie arriva fino a 30 metri di profondità.
Risulta impossibile definire con precisione la sua estensione: le stime vanno da 700.000 kmq fino a più di 10 milioni di kmq — per chi non ha grande dimestichezza coi numeri basta pensare che potrebbe superare la superficie degli Stati Uniti d’America.
I rifiuti nell’oceano Pacifico vengono trasportati dalle forti correnti marine, una di queste è il Vortice subtropicale del Nord Pacifico che con il suo movimento a spirale in senso orario fa confluire i rifiuti in un unica zona.
La nostra spazzatura non si ferma solo nell’Oceano Pacifico, infatti sono state individuate in totale cinque isole di plastica: due nel Pacifico – una è a ovest delle coste del Pacifico, l’altra è il Pacific Trash Vortex – e altre due nell’Atlantico settentrionale e meridionale (tra l’Argentina e il Sudafrica) e una nell’Oceano Indiano.
Queste isole si compongono principalmente di oggetti di plastica, fatto che non suscita stupore visto che dagli anni 80 la produzione di plastica è quadruplicata e, secondo un indagine condotta dell’Università della Georgia pubblicata su Science, ogni anno finiscono nell’oceano da 5 a 13 milioni di tonnellate di plastica.
I ricercatori hanno calcolato la quantità di rifiuti di plastica prodotta nel 2010 in 192 Paesi costieri, circa 275 milioni di tonnellate, delle quali 8 milioni sono finiti negli Oceani.
Al primo posto di questa triste classifica si è posizionata la Cina seguita da Indonesia, Filippine, Vietnam e Sri Lanka, al ventesimo posto troviamo gli Stati Uniti, mentre nessun Paese dell’Unione Europea compare nelle prime venti posizioni.
Quali sono gli effetti della plastica sugli ecosistemi e verso la nostra salute?
Maria Cristina Fossi, professoressa di Ecotossicologia presso l’Università di Siena e coordinatrice del progetto Plastic Busters — un piano di mappatura e divulgazione scientifica sull’inquinamento marino causato dalle plastiche — è intervenuta alla conferenza organizzata all’Acquario di Milano spiegando l’impatto ecotossicologico della plastica nei nostri mari.
La plastica si compone di polimeri sintetici derivati dal petrolio, non è biodegadabile e tende a frantumarsi lentamente nel tempo per effetto della fotodegradazione. I frammenti di queste plastiche si classificano in macro-plastiche (maggiori di 5 mm) e micro-plastiche (minori di 5mm) — quest’ultime vengono confuse per plancton ed ingerite dagli abitanti dei mari, entrando così nella catena alimentare passando dai coralli, ai pesci, ai mammiferi marini, agli uccelli e infine all’uomo.
Queste minuscole plastiche sono altamente nocive poichè ricche di PCB (policlorobifenili), ritardanti di fiamma, ftalati e altre sostanze tossiche.
Le micro-plastiche agiscono come vere e proprie spugne, assorbendo le sostanze inquinanti che incontrano – pesticidi, biocidi, idrocarburi – e amplificandone la tossicità fino a un milione di volte. Inoltre, veicolano agenti patogeni.
Ftalati e altri distruttori endocrini contenuti nelle plastiche, invece, alterano la produzione di ormoni sessuali, creando una tendenza all’ermafrodismo per ora accertata nei cetacei — si stanno studiando i danni e le possibili correlazioni ai numerosi casi di infertilità nell’uomo.
Spostandoci nel Mar Mediterraneo la situazione non migliora: vi sono più di 115 mila particelle di plastica per kmq, vale a dire circa 290 miliardi nei primi 15 cm d’acqua, e devono ancora accertarsi le quantità presenti sui fondali.
Nel 2014 è stata condotta un’ importante indagine scientifica dall’Università di Siena in collaborazione alla Marina Militare e finanziata dal Ministero dell’Ambiente, per indagare e analizzare la quantità di plastica presente nei mari italiani e i suoi effetti tossicologici sull’ecosistema marino.
Dalla ricerca è emerso un dato allarmante: il 56% dei campioni di plancton prelevati nell’area del Santuario dei Cetacei contiene micro-plastiche con livelli di tossicità elevati, e infatti le balene del Mediterraneo risultano avere condizioni di salute più gravi di altre — gli ftalati vengono metabolizzati dai mammiferi marini e vanno a interferire con la riproduzione.
I cetacei però non sono le uniche vittime della nostra spazzatura, il ritrovamento di 150 frammenti di plastica nello stomaco di una tartaruga Caretta Caretta (specie protetta) sono un dato sufficientemente indicativo per comprendere la criticità della situazione.
Purtroppo per le tartarughe marine il rischio non è rappresentato solo dalla tossicità delle macro-plastiche, ma anche dal soffocamento causato da buste di plastica scambiate per meduse e da reti e ami abbandonati che intrappolano e lacerano gli organi interni dell’animale.
Lo stato di salute dei pesci – in particolare tonno rosso, pesce spada e sogliola – è altrettanto preoccupante. Tralasciando la questione dello spopolamento dei nostri mari dovuto a una pesca sempre più intensiva, la condizione dell’ittiofauna è in continuo peggioramento: dalle analisi effettuate è risultato che un’alta percentuale di pesci che finiscono sulle nostre tavole viene contaminato micro-plastiche e mercurio.
L’impegno e l’attenzione delle Università italiane su questa problematica non manca, e decisivo è il contributo delle associazioni ambientaliste – come Legambiente, Greenpeace, WWF, Marevivo, Progetto Mediterranea –impegnate a raccogliere e monitorare dati e a recuperare rifiuti.
E noi cosa possiamo fare? Innanzitutto seguire il loro consiglio: ridurre, riutilizzare, riciclare. Nel nostro piccolo possiamo anche privilegiare l’acquisto di prodotti con pochi imballaggi, usare borse di stoffa, favorire l’uso di materiali riciclabili e usare un po’ di buon senso e amor proprio, pensando che ogni busta di plastica abbandonata o mozzicone di sigaretta lasciato su un spiaggia avrà impatto su un ecosistema che include anche noi.