Francesco Floris
@Frafloris
Donald Peers è un cittadino britannico che nell’estate del 1994 venne arrestato presso l’aeroporto di Atene in possesso di un ingente quantitativo di eroina.
Trasferito il 24 agosto nel carcere di Koridallos in regime di custodia cautelare, venne inizialmente trattenuto nel reparto psichiatrico-giudiziario del penitenziario, prima di essere spostato nei mesi successivi nei bracci Delta e Alpha dell’istituto, dove le celle erano – secondo la descrizione presentata dai suoi legali alla ECHR (European Court of Human Rights) – “Minuscole per due persone, con il cesso a vista, calde, antigeniche, senza alcuna ventilazione e in condizioni di ristrettezze per quanto riguarda la luce naturale”.
Il 19 aprile 2001, sette giudici della Corte europea per i Diritti Umani – fra cui un greco – condannarono Atene per violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali o CEDU, sottolineando nel dispositivo della sentenza come il detenuto fosse stato obbligato per almeno due mesi a passare la stragrande maggioranza delle 24 ore giornaliere confinato nel letto, senza ventilazione e finestre e costretto a guardare il suo compagno di cella defecare e viceversa. Questi comportamenti – che pure la Corte non giudicò intenzionali – vennero definiti come in grado di suscitare angoscia, sentimento d’inferiorità e capaci di umiliare e degradare il detenuto oltre che di romperne qualsiasi forma di resilienza morale e tenuta fisica.
Alla luce di questo primo indizio, chi ha creduto che fatti di inaudita gravità come l’irruzione notturna della polizia nella scuola Diaz di Genova la notte del 21 luglio 2001 – evento che dopo la sentenza emessa dalla ECHR a inizio aprile deve “qualificarsi come tortura” – riguardassero solo la nostra penisola dovrà ricredersi.
A scorrere la lista dei procedimenti contro stati membri del Consiglio d’Europa – organizzazione internazionale fondata nel 1949 a Londra che promuove i diritti umani e che ha elaborato la CEDU nel 1950 a Roma, sottoscritta o ratificata da tutti e 47 gli Stati membri del Consiglio a partire dal 22 giugno 2007 – emerge in maniera netta come nelle prigioni del Vecchio Continente si violino o si siano violati, con una frequenza che i magistrati definirebbero recidiva, l’articolo 2 – il diritto alla vita di ogni persona è protetto dalla legge – e l’articolo 3 – nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o a trattamenti inumani o degradanti – della Convenzione.
Un lungo elenco di nefandezze, passate in questi anni sotto il silenzio colpevole delle istituzioni, della stampa e dell’opinione pubblica, catalogate per tipologie di brutalità, a cui le amministrazioni carcerarie o le nazioni sono state chiamate a rispondere sul banco degli imputati a Strasburgo.
Chissà che significato attribuiva all’espressione “trattamento inumano e degradante” il direttore della prigione di Herbie Stare in Polonia, dove il 19 aprile 2005 venne portato Slawomir Musial con l’accusa di furto e rapina. Posto che il cittadino polacco soffriva di attacchi epilettici sin dall’infanzia e che gli erano state diagnosticate forme di schizofrenia e altri disordini mentali, nonostante ciò venne imprigionato in strutture carcerarie ordinarie e portato in ospedali psichiatrici solo in occasione di emergenze di tipo allucinatorio o di tentati suicidi, gesti estremi ma non inediti per il Musial che aveva provato a togliersi la vita – fatto accertato – in almeno un caso quando ancora si trovava a piede libero.
E chissà se per un soggetto in tali condizioni psichiche – e più in generale per un qualunque detenuto – si ritenga salutare o necessario, per poterlo recuperare alla società, rinchiuderlo in una cella “sovraffollata, infestata di cimici, scarafaggi, funghi e priva di acqua calda corrente” – come recita il dispositivo della sentenza 28300/06 emessa contro la Polonia in data 20 gennaio 2009.
Eppure l’elenco continua e spalanca impetuoso il proverbiale armadio colmo di scheletri e polvere, non solo quella nascosta sotto lo zerbino di nazioni dalla democrazia immatura o di genesi recente — come lasciano intendere i succitati casi greco e polacco. Anche i campioni del diritto liberale si scoprono nudi.
Infatti a Birmingham, Regno Unito, il 6 dicembre 2004 veniva arrestato un trentaquattrenne (il signor M.S. di cui conosciamo solo le iniziali) in pieno stato d’agitazione, mentre commetteva l’odioso ed efferato crimine di suonare all’impazzata il clacson della propria auto — fatto che evidentemente, a quella data ora del giorno, turbava la quiete della seconda città britannica per popolazione. Le forze di polizia locali lo condussero in centrale sotto l’egida del Mental Health Act, lascito legislativo di epoca thatcheriana: approvato nel 1983, prevedeva la possibilità di mantenere in stato di fermo fino a 72 ore una persona soggetta a visibili disordini mentali — anche per sottoporla a controlli medici e stabilire in seguito il trattamento più opportuno.
Nonostante una serie intensiva di perizie che confermavano la necessità di ricovero immediato per il signor M.S. – rappresentava un “rischio per la sua incolumità e quella degli altri” – e una lunga serie di dinieghi anche da parte del reparto locale di terapia psichiatrica intensiva, M.S. venne ricondotto in cella sotto la custodia della polizia, che assistette inerme per le 72 ore stabilite dalla legge alle urla spasmodiche del detenuto che si denudava, sbatteva la testa contro i muri, beveva dalla tazza del cesso e spalmava il suo corpo con il cibo che gli veniva fornito e con le sue stesse feci. Dopo più di tre giorni e dopo il parere di un consulente psichiatrico forense, il signor M.S. veniva gentilmente ammanettato e condotto in clinica.
Lo ribadiamo per chiarezza: accadeva nel 2004 dentro i confini della patria Inghilterra, che del suo ordinamento giuridico ha fatto un totem da esportazione.
Per non parlare della terra che ospitò in più occasioni Cesare Beccaria e diede i natali fra gli altri a Montesquieu e Michel Foucault, che a proposito di torture e prigioni ha scolpito nella carta alcune delle pagine più intense della filosofia contemporanea. Anche Oltralpe hanno collezionato un discreto numero di richiami non verbali: ad esempio per i fatti connessi alla prigionia della signora Virginie Raffray Taddei, discreta collezionista di violazioni del codice penale transalpino – la sua fedina recita un rosario di venti condanne a partire dal 1994 – il che tuttavia non la trasforma nella cavia di un sistema penitenziario, nonostante i rigurgiti fascisti che di tanto in tanto si riversano in Europa.
Non la trasforma in un bersaglio sul quale accanirsi, a maggior ragione se dagli esami di un medico emerge che la signora soffre di seri problemi di salute: asma, insufficienza respiratoria cronica, anoressia (la donna passò dai 54 kg del giugno 2008 ai 35 kg dell’aprile 2009) e sindrome di Munchausen. Arrivano una serie di pareri contrastanti: nell’aprile del 2008 in una cartella clinica si legge che “stante le condizioni patologiche attuali della detenuta, che sono molte e interconnesse, il mantenimento in regime carcerario ordinario non potrebbe che aggravarne la situazione”. Altri esperti sostengono che “sul lungo periodo la situazione psico-fisica della donna è compatibile con la detenzione”.
Il timbro finale, per quanto riguarda la giustizia francese, lo appone la Corte d’Appello di Lione, che rigetta il ricorso della Taddei e stabilisce che la sua prigionia possa continuare nel regime precedente, oltre al fatto che il Governo si sarebbe dovuto assumere il compito di fornire supporto e cure medico-psicologiche su base settimanale.
La palla passa a questo punto a Strasburgo che, con una sentenza intrisa di condizionali e specifiche, condanna comunque la Francia per violazione dell’articolo 3 della CEDU.
Da ultimi, ma di vitale importanza, sono da considerarsi tutti quei casi in cui la Corte ha respinto al mittente i ricorsi presentati. Perché non vi siano stati trattamenti inumani o degradanti? No: perché spesso a quei malcapitati – che per via della sorte o di scelte personali azzardate finiscono nei circuiti carcerari o nelle grinfie di qualche secondino dalla mano pesante tollerato dai vertici – il destino propone pure un avvocato che, talvolta per inesperienza e altre per parcella non abbastanza sostanziosa, si dimentica di presentare il ricorso in tutti i tribunali nazionali competenti, prima di affidarsi alla buona nomea della Corte Europea per i Diritti dell’Uomo. E quest’ultima – in quanto istituzione giuridica, e per sua stessa costituzione soggetta al fascino dei cavilli e delle formalità – riconosce le “torture”, ma rigetta oltre confine il torturato — dentro quella gigantesca area grigia del diritto che riconosce la barbarie solo a distanza e nella quale sguazzano virtuosi esponenti di interi ordini professionali.
Ancora più interessante sarebbe ampliare il nostro campo visivo e spostarlo su nazioni esportatrici nette di moralità a prezzo di saldo, che in giro per i diversi angoli del globo, come talvolta raccontato da queste colonne, hanno commesso atti di tortura a tutt’oggi impuniti, nel più totale sfregio della Convenzione di Ginevra.
Siamo partiti da Genova e siamo arrivati a Ginevra – o, come dicono gli inglesi, Geneva. Non sono poi così lontane.