
Dal 15 al 26 Aprile il palcoscenico del Teatro Carcano diventa l’ambientazione della storia tratta da un film del celebre regista Giuseppe Tornatore, Una pura formalità (1994). Gli interpreti originari, Gerard Depardieu e Roman Polanski, sono sostituiti rispettivamente in questa trasposizione da Roberto Sturno e Glauco Mauri, il quale ha curato la regia dell’adattamento teatrale. Il sodalizio tra questi due attori, che dal 1981 si confrontano con i grandi autori classici e contemporanei, affronta così per la prima volta un soggetto cinematografico; il risultato è una rappresentazione noir carica di pathos e tensione, in grado di avvincere lo spettatore fino alla chiusura del sipario.
L’intera vicenda, che si svolge nella durata di un unico atto scenico per non discostarsi ritmicamente alla versione cinematografica, è ambientata nell’ufficio polveroso di una grigia e squallida stazione di polizia sperduta nel bel mezzo di una campagna. Il luogo è completamente isolato, sia spazialmente che da un punto di vista comunicativo, poiché a causa di un temporale in corso la linea telefonica è interrotta. Significativa ed inquietante è inoltre la presenza su una parete di un orologio senza lancette, che sospende la narrazione in una dimensione quasi metafisica e atemporale. Tale sensazione è acuita dalla evidente asimmetria della stanza, dalla sua irregolare prospettiva, che suggerisce una situazione in bilico fra sogno e realtà.
Durante la notte un uomo, sorpreso da due agenti a correre in un bosco sotto la pioggia in stato confusionale, viene condotto nella stazione di polizia per accertamenti. L’individuo si rivela essere Onoff, famoso scrittore particolarmente amato dal commissario che giunge per interrogarlo. Alle domande di quest’ultimo, che si svolgono inizialmente in un clima bonario e disteso, Onoff risponde di non riuscire a ricordare i fatti delle ultime ore, e nel tentativo di farli riemergere li racconta in maniera contraddittoria e reticente. Peggiora poi la situazione un tentativo di fuga da parte dell’uomo, subito sventato dai poliziotti di guardia. Di conseguenza, quella che sembrava essere inizialmente soltanto una formalità si trasforma in una vera e propria indagine, sempre più serrata ed incalzante: la ragione di ciò è che quella sera stessa vicino al casale dello scrittore è stato commesso un omicidio; la vittima è irriconoscibile. Inizia così un percorso a ritroso per ricostruire gli eventi reali dell’ultima giornata di Onoff, ma la ricerca si spinge man mano oltre, fino a ripercorrere la sua intera esistenza.
L’indagine poliziesca si trasforma dunque in un puro espediente narrativo, assume la dimensione di un viaggio all’interno della memoria, all’inseguimento di verità celate o rimosse, un passato che lo scrittore stesso ha voluto dimenticare.
Il tentativo di ricordare le sue azioni recenti lo conduce, sotto la spinta delle domande sempre più affilate del commissario, verso la riscoperta di se stesso; è il mistero della sua vita quello che in realtà si dipana sulla scena, mettendo a nudo in un drammatico crescendo fragilità, debolezze, fallimenti, paure, passioni e dubbi tipicamente umani. Il confronto, che vede contrapporsi un Onoff smarrito e disperato ad un uomo di legge lucido e implacabile, è l’elemento che conferisce all’interrogatorio il suo valore maieutico: un uomo fa sorgere in un altro uomo tutte quelle domande necessarie per comprendere la propria esistenza e la fatica del vivere. Quello che appare inizialmente come un giallo da risolvere sfuma così nel tentativo di ricomporre i pezzi di un’esistenza lacerata, fino allo sconcertante epilogo che pone tutta la vicenda sotto una più chiara luce.
L’intensità di questo percorso esistenziale è resa grazie al potente simbolismo che permea l’intera messa in scena dell’opera. La scenografia sopra descritta, realizzata da Giuliano Spinelli, restituisce l’idea di un luogo di passaggio nel quale viene sviscerata l’esistenza degli uomini, e lo spettatore è spinto come Onoff a fare i conti con se stesso ed il proprio passato.
Altrettanto significativa è la continua dialettica tra luce ed ombra – resa attraverso l’espediente scenico dei black-out causati dal temporale – a significare la volontà di fare chiarezza su una vita il cui reale svolgimento è stato censurato sotterrando i ricordi fra le tenebrose pieghe della memoria.
Il temporale stesso, metafora dello smarrimento esistenziale di Onoff, infuria per tutta la durata della rappresentazione; la luce dei lampi illumina a tratti lo sfondo, mentre il rumore dei tuoni unito allo scrosciare della pioggia fa da colonna sonora a quasi tutto lo spettacolo. Soltanto alla fine tutto cessa d’improvviso, nel momento in cui riaffiorano gli ultimi brandelli della memoria ricomponendosi nella mente dello scrittore, e tutto gli si svela; di colpo la furia degli elementi si placa, e anche la luce si stabilizza finalmente in un quieto chiarore.
Questa sensazione di grazia è la stessa che coglie lo spettatore al termine della rappresentazione, più appagante della soluzione di un giallo poiché risolve l’enigma di un’esistenza confusa e disastrata.
L’inaspettato finale rimane però aperto ed interroga direttamente il pubblico, che si trova costretto a cercare una propria collocazione all’interno dell’interpretazione complessiva dell’opera.
Emerge così, ancora una volta, il potere che il linguaggio teatrale è da sempre in grado di esercitare sull’uomo. A renderlo possibile è la spontanea immedesimazione che si arriva a provare nei confronti del personaggio di Onoff, in virtù della sua commovente umanità; la sua fatica, il suo male di vivere, raccontano una condizione che ogni individuo sperimenta e condivide nel corso della propria esistenza.