
Stefano Colombo
@Granzebrew
L’ex presidente egiziano Mohammed Morsi è stato condannato a morte dal regime militare di al-Sisi. Il pretesto è aver organizzato un’evasione di massa durante i turbolenti giorni della primavera del 2011, in cui fuggirono dalle carceri egiziane moltissimi esponenti di spicco dell’Associazione dei Fratelli Musulmani — organizzazione alla quale è fortemente legato il partito con il quale Morsi venne eletto Presidente, Libertà e Giustizia.
Quell’episodio fu uno dei punti cruciali della cosiddetta Primavera Araba: oggi Morsi viene mandato al patibolo proprio per i fatti di quel giorno.
L’ex Presidente ha ancora qualche possibilità di conservare la testa: la sentenza — letta l’altro ieri nell’accademia di Polizia Tagammo el-Khames — deve essere girata al Gran Muftì egiziano, che darà un parere non vincolante sulla possibile grazia da concedere a Morsi. Dopo che questo sarà reso noto, il 2 Giugno prossimo, il Presidente potrà ricorrere in appello. Morsi è stato accusato insieme ad altri 132 coimputati, di cui solo 27 presenti in aula.
106 persone, per quei fatti, sono state condannate a morte, la maggior parte in contumacia, tra queste, il numero due dei Fratelli Musulmani, Khairat el-Shater.
Se anche la pena venisse ridotta o per scherzo del destino l’ex Presidente venisse assolto, passerebbe comunque i prossimi vent’anni nelle patrie galere, dato che il mese scorso è stato condannato per incitamento alla violenza e per la repressione di una manifestazione davanti al palazzo presidenziale, alla fine del 2012.
Il Presidente sarebbe la vittima più illustre di un regime sanguinario, che in soli due anni di potere ha falciato migliaia di vittime — anche l’ultima volta che ci siamo occupati di fatti interni egiziani, il bilancio era stato tragico.
Quando al-Sisi si insediò spodestando Morsi, che lo aveva peraltro voluto nel suo governo come Ministro dell’Interno, una discreta fetta dell’opinione pubblica occidentale lo salutò come semplice esecutore delle volontà popolari, la pezza da porre a un passo falso compiuto dal popolo egiziano sulla strada della democrazia. Avevamo messo in guardia dai rischi di questa visione fin dal primo giorno, i nostri peggiori timori si sono rivelati fondati. Varie cancellerie hanno espresso riprovazione per la condanna di Morsi, tra cui quella italiana. Come riportato da Ansa, la Farnesina ha dichiarato che “ripudia la pena di morte ed opera per una moratoria universale”, sperando che “le sentenze siano riviste”. Anche gli USA si dicono “profondamente preoccupati”, in particolare “dal fatto che si tratti di un’altra sentenza di massa, che riguarda oltre 100 imputati. È una violazione degli obblighi internazionali dell’Egitto”.
L’Egitto ha risposto a muso duro intimando ai vicini di non immischiarsi ed “esprimendo risentimento” per le osservazioni altrui, a quanto riferisce Mena News: “Commentare sentenze emesse da corti egiziane è inappropriato e, dato che costituisce un’interferenza negli affari interni, è qualcosa che viene completamente respinto”.
Il regime, d’altronde, sa bene di essere tutelato dall’esterno: dall’Arabia Saudita, che ha contribuito alla sua costruzione, ma anche da coloro che adesso gli rivolgono blande accuse, come gli Usa — che versano ogni anno nelle casse dell’esercito egiziano non pochi miliardi di dollari — e la Farnesina: basti pensare che l’unico leader occidentale ad essere presente al vertice economico tenutosi a Sharm el Shayk un paio di mesi fa — che nelle intenzioni di al-Sisi doveva essere un’occasione di rilancio per il Paese — è stato Matteo Renzi.
Il Presidente del Consiglio italiano ha avuto contatti intensi con al-Sisi anche sulla questione libica. Il Sole 24Ore ha commentato così il rapporto tra i due: “Il rapporto personale che ha saputo creare con Abdel Fattah al Sisi è noto e utile alle imprese italiane che storicamente guardano all’Egitto come a un Paese col quale fare affari. Forse sarebbe un bene usare questa amicizia per tentare di moderare le tendenze repressive crescenti del regime che governa al Cairo.”