Del: 17 Maggio 2015 Di: Erin De Pasquale Commenti: 0

Erin De Pasquale
@SirRexin

Siamo abituati a pensare ai videogame come un medium molto giovane ma, benché sia vero in relazione a media tradizionali, non è così in senso assoluto: se si considera come da convenzione l’uscita di PONG nel 1972 la data ufficiale della loro nascita si parla comunque di quasi cinquant’anni – e in realtà alcuni videogiochi erano stati creati anni prima, addirittura nei primi anni Sessanta.
L’evoluzione di questo medium è chiaro a tutti: basta ripensare alle console con cui siamo cresciuti e all’enorme balzo evolutivo che hanno compiuto in questi anni. Non solo, anche a livello di investimenti la produzione è aumentata esponenzialmente tanto da far competere l’industria videoludica con quella dei colossal hollywoodiani, in alcuni casi. Non è sempre stato così.

C’è stato un periodo, anzi, in cui l’industria videoludica – in particolare delle console casalinghe – subì un brusco arresto che durò per ben due anni.

1983: il successo commerciale di PONG, primo videogioco arcade commercialmente di successo, aveva dato il via all’era dei videogiochi come forma di intrattenimento per le masse e in pochissimo tempo le sale videogiochi raggiunsero il picco di popolarità negli Stati Uniti d’America e nel resto del mondo, dando vita alla così detta età dell’oro dei videogiochi. Durante questo periodo nacquero anche le prime console di gioco casalinghe: degli apparecchi elettronici con i quali era possibile, comprata una cartuccia apposita, replicare quegli stessi giochi che facevano impazzire i ragazzi negli arcade.
Atari, una software house statunitense, era all’epoca la responsabile dei più grandi successi dell’industria e nel 1983 dominava il mercato con il suo Atari 2600. Ma come abbiamo detto i videogiochi erano un medium giovane, e come tutti i medium giovani mancavano di una regolamentazione ben precisa; questo fattore, unito alla relativa facilità con cui si poteva costruire una console, portarono il mercato ad essere ben presto invaso da piattaforme di gioco, tutte diverse ma allo stesso modo incredibilmente simili, tanto che in alcuni casi era possibile giocare a titoli della concorrenza comprando “parti aggiuntive” per il macchinario che già si possedeva, ed era addirittura possibile trovare sul mercato dei veri e propri cloni di alcune console più famose a prezzi inferiori a quelle originali.
Era iniziata una inarrestabile invasione di videogiochi, tanto imponente che – secondo i report dell’epoca – spesso nei negozi non c’era lo spazio fisico per esporli e conservarli tutti. La mancanza di leggi precise si ripercosse anche sui singoli software: al contrario di adesso, le case di sviluppo delle console non avevano il minimo controllo sui titoli in uscita sulle loro piattaforme.

Era sufficiente sapere come programmare e poter stampare le cartucce per poter produrre un videogame.

Le case di sviluppo si rifiutavano di rivelare (e avevano il pieno diritto di farlo, senza nessun tipo di ripercussione legale) i nomi delle persone che avevano lavorato alla creazione dei loro titoli per impedire ai loro dipendenti di poter cambiare software house con cui lavorare. Molti sviluppatori, scontenti, decisero di lasciare la loro compagnia originale per fondarne una nuova: è in questo modo che da una costola di Atari nacque per esempio Activision, la prima casa di sviluppo di videogiochi di terze parti (ossia che non possedesse una console propria per la quale sviluppare titoli) e ora una delle più importanti aziende videoludiche del pianeta.
Tutti questi fattori portarono quindi ad una lotta senza quartiere nella quale le software house facevano a gara a chi riusciva a produrre il più velocemente possibile il maggior numero di cartucce possibili, e questo portò inevitabilmente ad una drastica picchiata della qualità dei titoli disponibili. Già nel 1981 Atari fece il suo primo grosso passo falso con il porting sulla sua console Atari 2600 del gioco arcade più amato di tutti i tempi, Pac-Man. Il lavoro venne affidato a Tod Frye, uno degli sviluppatori di punta della software house; in seguito alle sue minacce di lasciare la compagnia, Atari gli concesse la possibilità di ricevere degli incassi per ogni copia del gioco venduta. In questo modo Frye finì il lavoro in fretta e furia, distribuendo sugli scaffali dei negozi un gioco che ricordava solo alla lontana il suo originale —forse il peggior porting della storia dei videogame. Atari inoltre era così sicura del suo titolo che produsse la bellezza di dodici milioni di copie, benché erano state vendute fino a quel momento solo dieci milioni di console: secondo i piani della casa di sviluppo quindi non solo ogni persona che aveva acquistato un Atari 2600 avrebbe comprato una copia di Pac-Man, ma il titolo avrebbe permesso di vendere altri due milioni di macchine. Con i suoi sette milioni di cartucce vendute, Pac-Man fu il gioco che vendette meglio per Atari 2600 ma all’azienda rimasero in magazzino cinque milioni di copie, e moltissimi consumatori riportarono nei negozi il gioco per la sua bassa qualità.

E.T. per Atari

Ma il passo falso finale Atari lo fece l’anno successivo. Nel 1982 uscì nelle sale cinematografiche E. T. di Steven Spielberg. La software house statunitense si dimostrò subito interessata a produrre un gioco ispirato al lungometraggio di fantascienza e ne acquistò i diritti – pagando una somma da record, tra l’altro – ma poiché i suoi piani prevedevano l’uscita del titolo entro il periodo di Natale dello stesso anno, lo sviluppo del gioco durò in tutto cinque settimane. Qualsiasi videogiocatore moderno sa che molto spesso giochi tratti o ispirati da film sono pessimi poiché gli sviluppatori puntano sul brand più che sulla qualità del titolo; E.T. – The Extraterrestrial ne fu la prova più lampante: benché inizialmente avesse venduto bene proprio grazie al successo del film, in breve tempo le copie vennero quasi totalmente restituite alle catene di negozi; i negozianti a loro volta rispedirono le cartucce ad Atari, la quale fu costretta – secondo le leggi dell’epoca – a rimborsare i commercianti per la merce non venduta. Il titolo venne subito bollato come il peggior videogioco mai creato, e la sua uscita venne considerata l’evento che diede il via alla crisi dei videogiochi del 1983.
Nel settembre del 1983 un giornale locale pubblicò una serie di articoli nei quali veniva denunciato il fatto che diversi camion provenienti da uno stabilimento della Atari in Texas avesse trasportato e seppellito nella discarica cittadina fuori dalla città di Alamogordo, Nuovo Messico, una grandissima quantità di cartucce di videogiochi, console e accessori per le stesse. Secondo le fonti ufficiali, solo materiale difettoso era stato buttato, ma non tutti la pensavano così. Incidentalmente in quella discarica c’era il divieto assoluto di scavo, e i rifiuti venivano distrutti entro ventiquattro ore.
La storia delle cartucce seppellite passò letteralmente nella leggenda: per diversi anni fu fatto credere che si trattasse di una semplice diceria metropolitana, equiparata alla presenza di alligatori nelle fogne di New York o alle scie chimiche. Ma nel 2014 si scoprì la verità: a seguito di alcuni scavi per le riprese di un documentario sulla storia dei videogiochi vennero alla luce un gran numero di cartucce per Atari 2600, molte delle quali proprio di E.T.

E.T. per Atari

Per circa due anni l’industria dei videogiochi in Nord America rimase ferma, ad un passo dal collasso finale: i clienti erano ormai delusi dalla qualità dei titoli in commercio, e di conseguenza le vendite calavano vertiginosamente; le software house affrontarono un duro momento di crisi e molte furono costrette a chiudere o ad abbondare il settore videoludico. La stagnazione durò finché dall’estremo oriente un curioso eroe di origini italiane e con la capacità di saltare straordinariamente in alto non arrivò a salvare la situazione: nel 1985 sbarcò in Nord America il NES – acronimo di Nintendo Entertainment System – e uno dei titoli più amati di sempre: Super Mario Bros.
Hiroshi Yamauchi, l’allora presidente della software house giapponese, aveva fatto i compiti e sapeva bene quali furono gli errori che avevano portato alla crisi statunitense. Quando si aprì allo sviluppo di terze parti, Nintendo fece in modo di poter avere un controllo diretto sui titoli in vendita per le proprie console, obbligando le case di sviluppo a inviare una copia del prodotto finito prima della pubblicazione – al costo di pagare di tasca propria la produzione di tutte le cartucce. Nonostante non avesse nessun diritto di chiedere una cosa del genere, la strategia funzionò: limitando il numero di titoli prodotti, la qualità si alzò notevolmente e ancora adesso questa casa di sviluppo è famosa proprio per l’attenzione maniacale nello sviluppo dei propri titoli.
Fu proprio in questa occasione che nacque in America e successivamente in Europa il “Nintendo Seal of Quality”, un simbolo del controllo da parte di Nintendo di tutti i suoi titoli e una garantita qualità, il quale servì a riconquistare la fiducia degli appassionati e consegnò al mercato giapponese il dominio sul mercato videoludico che rimase assoluto fino al 2001, data dell’avvento della prima Xbox prodotta da Microsoft.

Erin De Pasquale
Studente di Lettere. Amo i videogiochi, fumetti, serie tv e libri: se esiste qualcos’altro là fuori, non voglio saperlo.

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