Del: 15 Giugno 2015 Di: Redazione Commenti: 1

Come diceva Belloq a Indiana Jones ne I predatori dell’Arca perduta: “Tu ed io siamo molto simili, l’archeologia è la nostra religione, ma entrambi ci siamo discostati dalla vera fede. I nostri metodi non sono così diversi come affermi tu, non sono che un tuo riflesso oscuro. Ci vorrebbe solo una piccola spinta per fare come me, per farti vedere la luce”.

Tra le discipline umanistiche, l’archeologia è stata quella che più di tutte ha cercato di approfittare dell’evoluzione tecnologica.
Fin dagli anni Cinquanta, per impulso del celebre studioso Jean-Claude Gardin avvenne la creazione di una specifica nuova branca di studi, l’informatica archeologica. Inizialmente si occupava di adattare gli indirizzi di studio della materia all’aumentare delle possibilità che il “computo elettronico” – come lo definì il celebre etruscologo Massimo Pallottino – forniva nell’analisi statistica di fenomeni e dati, utilizzati soprattutto nello studio della preistoria.

Non è più tabù da molti anni la ricerca di nuove forme d’indagine per una materia che “è nata come scienza storica, come una scienza che esplora il passato per ricostruirne la vita, le vicende. Ora è diventata una scienza di frontiera, a metà strada tra l’umanesimo e la tecnologia, con i metodi delle scienze esatte. L’immagine dell’archeologo che scavava da solo, che andava avventurosamente sui luoghi appartiene, ormai, ad una visione romantica di questa disciplina” come racconta il grande archeologo Sabatino Moscati.

Negli anni Novanta, infatti, la crescita tecnologica ha creato in un solo decennio una cesura netta con tutta l’applicazione precedente degli strumenti tecnologici.
Quindi si è passati ad una fase avanzata, con ricostruzioni 3D immediate, animazioni e realtà virtuali che ci restituiscono ogni volta un frammento in più di conoscenza sul passato. Come era stato il caso della squadra del Museo Egizio di Torino che aveva usato tecniche di indagine moderne su mummie di quattromila anni fa oppure l’esame del DNA sui resti trovati in un parcheggio di Leicester nel 2012 che ha confermato al di là di ogni ragionevole dubbio che quelle ossa appartenevano al plantageneto scomparso – e non troppo amato dalla storiografia britannica – Riccardo III.

Solo però negli ultimi anni è stata adottata una tecnica potenzialmente rivoluzionaria che ha creato una nuova branca dell’archeologia all’interno del settore che si può definire “informatico”.

Grazie alle ricerche della dottoressa Sarah Parcak della University of Alabama di Birmingham, sono state scoperte nel 2011 più di mille tombe e circa tremila antichi insediamenti nel sito di Saqqāra in Egitto. La particolarità della scoperta sta nel fatto che la dottoressa abbia pensato di scattare fotografie con i satelliti utilizzando i diversi spettri della luce e che, grazie alle immagini agli infrarossi, sia riuscita a scoprire un sito nascosto là dove c’era soltanto sabbia.

Questa nuova tecnica, definita archeologia spaziale, rappresenta una possibilità incredibile di definire sempre meglio il territorio e di trovare nuovi siti — come già avviene dal 2002 grazie ai satelliti Landsat, Corona, ASTER e Quickbird — oppure di ridefinire alcuni dubbi storico-archeologici persistenti, come il caso dell’abbandono della città di Angkor-Wat in Cambogia. Per anni la tesi tradizionale aveva attribuito il declino della gigantesca capitale nella giungla all’aggressività dei vicini degli Khmer, gli Ayutthaya, mentre la tesi – già diffusa dalla metà degli anni Novanta – di un declino “ecologico”, dovuto all’improvvisa siccità e poi alla distruzione del sistema idrico della città, ricevette conferma soltanto quando si sommarono le diverse immagini satellitari e si scoprì che per resistere ai cambiamenti climatici i governatori della città fecero scavare un canale che dal più grande bacino idrico conduceva direttamente nel centro cittadino, esponendolo così al rischio di gravi inondazioni nel periodo monsonico.

La possibilità di ridefinire con precisione sempre maggiore alcune conclusioni storico-archeologiche ha dato nuovo slancio agli studi del settore. Come riporta la dottoressa Parcak: “È un importante strumento per focalizzare meglio il sito su cui si sta scavando. Ci dà una prospettiva più grande sui siti archeologici. Noi dobbiamo pensare più in grande, e questo ce lo permettono i satelliti. Indiana Jones è old school. Siamo andati oltre da Indy, scusa Harrison Ford”.

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