Del: 4 Giugno 2015 Di: Francesco Floris Commenti: 0

Francesco Floris
@Frafloris

«Sono un ottimista che parla di disuguaglianza». A dirlo Anthony Barnes Atkinson, professore di economia politica alla Cambridge University, ex presidente della Royal Economic Society e autore di numerosi saggi scientifici e divulgativi, l’ultimo dei quali Inequality. What can be done? uscirà nella traduzione italiana a novembre del 2015.
«Sono un ottimista perché non credo che le disuguaglianze siano un fenomeno naturale o divino, ma la conseguenza di scelte che i governi e l’establishment prendono in piena coscienza, scelte che come tali possono essere cambiate».

Nel 1997 pubblica su Economic Journal un breve saggio di 24 pagine dal titolo “Bringing Income Distrbution in From the Cold”, atto d’accusa contro la professione economica nel quale si dimostra che per tutto il XX secolo le domande riguardanti la distribuzione del reddito – soprattutto quando questa è iniqua – sono state in larga parte glissate o ignorate. «Ci si è svegliati nel 2008 uscendo da un sogno per entrare in un incubo e abbiamo scoperto che se le disuguaglianze crescono il capitalismo non può funzionare». Molti dei suoi colleghi e dei decisori politici – dice Atkinson – si sono trovati privi degli strumenti per comprendere il fenomeno, e le frasi di Barack Obama o di Christine Lagarde – la direttrice del FMI – stanno lì a dimostrarlo. «Avvertono il pericolo ma non sanno come difendersi».

Ma cos’è la disuguaglianza? Risponde dal palco di Trento lo studioso britannico, con un esempio che vale più di mille parole: «La disuguaglianza avviene quando alcune persone possono comprare un biglietto per per viaggiare nello spazio mentre altre si mettono in coda davanti a una mensa dei poveri per avere un pasto gratis». E le persone davanti alle mense sono aumentate nel corso dei decenni e sono le stesse che non vanno più al ristorante o non cambiano più l’auto, peggiorando la performance generale del sistema economico.

Nel primo dopoguerra, in Gran Bretagna, il coefficiente di Gini — che assieme all’indice di Atkinson rappresenta il principale strumento per indagare le disuguaglianze — era pari al 25%. A partire dal 1980 aumenta al 35%.
Se volessimo ripristinare la situazione dei primi anni Cinquanta solo attraverso l’imposizione fiscale, il nostro Cancelliere dello Scacchiere (il Ministro delle Finanze britannico) dovrebbe presentarsi al Parlamento e proporre un aumento delle aliquote d’imposta sul reddito di almeno venti punti. Una mossa politicamente suicida».
Perché è accaduto? La spiegazione da manuale dice che a fronte di un aumento della domanda di lavoro specializzato non è seguita un’evoluzione dell’offerta di lavoro. «Questo lo scrivevano i manuali di quarant’anni fa e anche gli economisti hanno le loro leggende».

Atkinson introduce l’argomento dell’evoluzione tecnologica e dell’automazione: «Pensate a un’azienda ipotetica che decida di far lavorare nei suoi magazzini solo robot e che utilizzi i droni per consegnare la merce – sorride – secondo voi questa decisione come influisce sulla curva della distribuzione del reddito? I governi non devono subire passivamente l’evoluzione tecnologica: hanno contribuito al suo sviluppo finanziando gran parte della ricerca e devono assumersi il compito di gestire la transizione e l’ingresso degli automi nel mercato del lavoro». Non è luddismo quello di Atkinson o “mito del buon selvaggio” – ci tiene a precisare – solo buon senso.

E allora What can be done? «Si deve cambiare la struttura dell’imposizione fiscale, l’aliquota più elevata sul reddito deve passare al 65%, almeno nel Regno Unito, senza peraltro tornare ai livelli degli anni Cinquanta. Bisogna intervenire nel trasferimento di ricchezza fra generazioni, la tassa di successione non può essere una tantum», perché come pensava e scriveva John Stuart Mill già sul finire del XIX secolo “l’accumulo di ricchezza personale o familiare è una minaccia alle libertà individuali”.

«Bisogna ragionare in termini non necessariamente di reddito di cittadinanza o reddito minimo ma in termini di reddito di partecipazione» che per Atkinson si configurerebbe come uno sgravio fiscale al contrario, un’idea che è stata sostenuta da due autorevoli premi Nobel di orientamento opposto come Milton Friedman e James Tobin.

«Le nostre banche centrali e i trattati che firmiamo hanno target per ogni indicatore macroeconomico: l’inflazione, il deficit, il debito. Ne manca solo uno: l’occupazione». Parla a tutto braccio l’economista: «I governi dovrebbero agire come datori di lavoro di ultima istanza se necessario, hanno già fatto i prestatori di ultima istanza salvando le banche dalla catastrofe, possono farlo anche con i contribuenti».
Si sofferma su un punto: «Si parla sempre di debito pubblico e mai di patrimonio pubblico che è l’altra faccia della medaglia». Cita il caso norvegese, alcuni Paesi petroliferi – come il Qatar – o Singapore che hanno ricostituito dei fondi sovrani con i quali lo Stato entra nelle società private attraverso pacchetti di quote. «Non parlo di nazionalizzazione ma di ricostruzione del patrimonio nazionale che è stato dilapidato con le privatizzazioni, spesso a prezzo di saldo».

Sono proposte eretiche, almeno per il mainstream economico, ma mai quanto è eretica “la disoccupazione a due cifre” spiega Atkinson. «Quando studiavo economia nel mio Paese c’era il terrore che i disoccupati diventassero il 2.5%, oggi siamo al 6% e ci raccontiamo di vivere nell’Eden».
Si dice disposto a discutere le proposte contenute nel suo ultimo libro, a modificarle, ma non vuol sentire parlare di “destino” o di “mondo globalizzato dove agli Stati non è concesso alcun margine di autonomia decisionale” perché «le sfide del ventunesimo secolo sono il cambiamento climatico e la demografia. Di economia sappiamo già quello che c’è da sapere. Ora bisogna prendere delle scelte».
E le scelte le prendono gli esseri umani, non la globalizzazione o qualche altra misteriosa forza oscura, per questo «sono ottimista».

Francesco Floris
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Collaboratore de Linkiesta.it, speaker di Magma, blogger.

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