Sebastian Bendinelli
@se_ba_stian
“Where are you from?”
— I am from the future.
Era il 1988 quando Fereidoun M. Esfandiary, poliedrico scrittore e filosofo transumanista, quarantacinquenne, cambiava legalmente il proprio nome in FM-2030: una sigla con cui intendeva riassumere un concetto, uno slogan, una sintesi alfanumerica delle proprie idee. “FM” come le iniziali del nome obsoleto del se stesso biologico, o forse come “Future Man” – Esfandiary non ne ha mai voluto dare un’interpretazione ufficiale. Di certo il 2030, anno-simbolo del suo centesimo compleanno, rappresentava il tempo ideale in cui le sue predizioni futuriste non sarebbero state più soltanto fantascienza:
“The name 2030 reflects my conviction that the years around 2030 will be a magical time. In 2030 we will be ageless and everyone will have an excellent chance to live forever. 2030 is a dream and a goal”
Nell’anno successivo, il 1989, usciva il suo libro più famoso, Are you a Transhuman?, una raccolta di auto-test per misurare il proprio grado di aggiornamento alla realtà in rapida evoluzione. Quanto sei post-industriale? Quanto sei intelligente? Quanto sei cosmico? Insomma, quanto sei pronto a superare la vecchia edizione della specie umana e fare da ponte – anzi da catalizzatore – per la sua prossima evoluzione, questa volta un’evoluzione consapevole e partecipata, che culminerà nel post-umano del XXI secolo?
Per crudele ironia del destino, FM-2030 morì appena dopo lo scadere del Novecento, senza poter mai vivere quel secolo aureo di cui pure si sentiva originario (aveva dichiarato, famosamente: “I am a 21st century person who was accidentally launched in the 20th. I have a deep nostalgia for the future”), spegnendosi l’8 luglio del 2000 per colpa di un cancro al pancreas – mentre lavorava al suo ultimo lavoro (uscito postumo), beffardamente intitolato Countdown to Immortality. Da quindici anni esatti la sua testa, meticolosamente staccata dall’inutile zavorra del corpo, riposa a mo’ di Futurama in una capsula di crioconservazione presso la Alcor Foundation, in attesa di tempi migliori.
Il significato più profondo del nome FM-2030, aldilà del preciso traguardo temporale mai raggiunto (o forse non ancora raggiunto), stava però nella sua stessa forma, una combinazione apparentemente casuale di lettere, trattini e numeri, a marcare la nuova condizione dell’essere umano a cui mirava FM: libero dai condizionamenti identitari di famiglia, nazionalità e religione, abitatore di un mondo fluido e senza frontiere.
Quest’utopia aveva le proprie radici nel passato ramingo del fu-Esfandiary, che era figlio di un diplomatico iraniano: nato a Bruxelles nel 1930, prima dei dodici anni aveva già abitato in diciassette Paesi diversi e sapeva parlare quattro lingue. Manifestando sin da giovane una certa propensione ad assumere molte forme e molte vite, nel 1948 si trovava alle Olimpiadi di Londra con la nazionale iraniana di basket. Quattro anni più tardi era alle Nazioni Unite, dove lavorò fino al ’54 come membro della Commissione di Conciliazione per la Palestina, immerso in prima persona nel sogno del superamento dello Stato-nazione, così vivo all’indomani della seconda Guerra Mondiale.
L’essere umano a cui mirava FM: libero dai condizionamenti identitari di famiglia, nazionalità e religione, abitatore di un mondo fluido e senza frontiere.
Esfandiary tuttavia non sarebbe stato né un atleta, né un diplomatico. E neppure un romanziere, nonostante i tre romanzi pubblicati tra il ’55 e il ’66, pure con un discreto successo di critica. L’ultimo dei tre, Identity card (mai tradotto in italiano), affronta la tematica della lotta del singolo contro un’autorità burocratica oppressiva, attraverso la storia – chiaramente venata di autobiografismo – di un ragazzo iraniano, Daryoush Aryana, che cerca disperatamente di ottenere i documenti necessari per tornare dall’Iran in Occidente, dove è cresciuto. Una riflessione, quella sul senso dell’identità personale e sul peso dell’eredità etnica e familiare, che avrebbe influenzato il pensiero di Esfandiary ben prima della scelta radicale di cambiare nome, avvenuta quando la sua fama di pensatore e guru transumanista era ormai stabilmente affermata.
È curioso che il termine transumanesimo sia stato coniato da Julian Huxley – biologo, primo direttore generale dell’UNESCO e fratello del più celebre Aldous – date tutte le implicazioni distopiche che una simile prospettiva esistenziale comporta. Nel 2009 si è scomodato perfino Francis Fukuyama, tra una fine della Storia e l’altra, per indicare nel transumanesimo l’“idea più pericolosa del mondo”. Ma per quanto pericolosa, è difficile dire ormai dove sia il confine tra l’idea – una filosofia di vita o pure una religione, se vogliamo – e la semplice constatazione di un dato di fatto: l’irreversibile immersione dell’uomo in un sistema tecnologico che ne ha già alterato significativamente il comportamento e che non è lontano dall’alterarne stabilmente la natura. Insomma, siamo già tutti trans-umani e potremmo diventare post-umani molto presto (qualcuno forse lo è già). Esseri umani aumentati, legittimi abitatori della realtà aumentata.
Se FM-2030 si risvegliasse domani dal suo sonno al nitrogeno, ne sarebbe certamente molto contento. Fra i transumanisti d’oggi il suo nome è un po’ negletto, la sua letteratura un po’ datata, ma l’esuberante Esfandiary resta il padre nobile del movimento, tra i primi ad averne popolarizzato il nome e i principî. Non era uno scienziato: nei suoi scritti l’elenco delle meraviglie tecnologiche che avrebbero rivoluzionato la vita dell’uomo e sconfitto la morte – robotica, nanotecnologie, criopreservazione, colonizzazione spaziale, ingegneria genetica e così via – scorre come un mantra, o come il repertorio formulare di un poeta (ad altri è lasciato di realizzarle). A lui si attribuisce la previsione, tra le altre cose, della stampa in 3D, della diffusione dell’e-commerce e dei MOOC, ma ciò che colpisce di più – e che forse ha lasciato l’impronta maggiore sugli epigoni d’oggi – è il suo inflessibile entusiasmo.
Contro a chi denunciava la crescente alienazione dell’uomo occidentale o guardava con angoscia alla possibilità di un olocausto nucleare – in piena Guerra Fredda – Esfandiary cantava i fasti della prima “Età dell’Ottimismo”, un’era di completa abbondanza, descritta con tinte da paese di Cuccagna, senza più nessun limite (che sia biologico o sociale) all’infinito potere creatore dell’uomo. Le linee guida di questa visione del mondo, inizialmente detta “Up-wing philosophy”, trovano la propria formulazione più esaustiva in un trittico di saggi usciti negli anni ’70: Optimism One (1970), Up-Wingers: A Futurist Manifesto (1973) e Telespheres (1977). Up-wing significa né left-wing né right-wing – come FM amava ripetere spesso – cioè né di destra né di sinistra, ma “sopra” – perché ovviamente anche le barriere ideologiche saranno superate, insieme a qualsiasi forma di autorità politica (che cederà il passo alla teledemocrazia diretta) e agli Stati stessi. Se vi ricorda gli slogan di un certo partito politico nostrano, alle cui spalle sta un certo futurologo, siete sulla buona strada.
Siamo già tutti trans-umani e potremmo diventare post-umani molto presto (qualcuno forse lo è già)
L’indefesso e acritico ottimismo di FM-2030 (in un’intervista del 1989 il presentatore Larry King gli domandò se ci fosse almeno qualcosa che non gli piaceva, del futuro. Risposta: that it is not happening fast enough) suona inevitabilmente un po’ naïve e, suo malgrado, molto ancorato all’immaginario del XX secolo, quasi da fantascienza classica, per quanto possano essersi rivelate azzeccate alcune profetiche previsioni. Nel 1981, per esempio, scriveva sul numero 27 di The Futurist: “Attorno al 2010 il mondo sarà in una nuova orbita della storia. Trasmigreremo su tutto il pianeta e nel sistema solare—saremo a casa ovunque. Saremo iperfluidi: scivoleremo sulla terra—nuoteremo nelle profondità dell’oceano—lampeggeremo nel cielo. […] L’aspettativa di vita sarà indefinita. Malattie e disabilità non esisteranno. La morte sarà rara e accidentale—ma non permanente”.
Eppure il transumanesimo è ben più di una bizzarrìa, di un’eccentrica ubriacatura di progresso. A quindici anni dalla morte di FM-2030 il movimento è più vivo che mai, radicato soprattutto nella culla dello sviluppo tecnologico mondiale – la Silicon Valley – dove giovani imprenditori tecno-fanatici e investitori milionari lavorano al perseguimento degli stessi obiettivi: immortalità – grazie a corpi bionici o upload delle coscienze su supporti informatici – esplorazione spaziale, intelligenza artificiale.
Dal 1998 esiste un’Associazione Mondiale Transumanista, che ora si chiama Humanity+, si è dotata di una transhumanist declaration (in cui fortunatamente compare anche qualche espressione di cautela) e cura la pubblicazione di un’omonima rivista online. E non manca il partito transumanista, che ha già espresso il proprio candidato alle elezioni presidenziali statunitensi del 2016: il giornalista e scrittore Zoltan Istvan, influente futurologo, autore – tra l’altro – delle “Tre leggi del transumanesimo”. Istvan cura regolarmente una rubrica su Motherboard, in cui spiega come la tecnologia sarà capace di correggere i refusi della realtà e come il matrimonio diventerà obsoleto quando la nostra speranza di vita si aggirerà sui mille anni.
Zoltan Istvan è una figura abbastanza simile, per ego, versatilità intellettuale (anche lui romanziere) e inquietante entusiasmo, al nostro FM-2030. Che forse non è riuscito a vincere la morte e a viaggiare nello spazio, ma difficilmente può dirsi sconfitto.