Del: 7 Luglio 2015 Di: Maria C. Mancuso Commenti: 0

Maria Catena Mancuso
@MariaC_Mancuso

Il chilometro zero è uno fra i totem dell’ideologia Slow Food, che conta sempre più adepti e di cui Expo si è fatta portavoce — qualcuno direbbe contraddittoriamente vista la presenza all’interno dei suoi padiglioni della più grande catena di fast food del mondo.

Originariamente l’espressione chilometro zero significava promozione della salvaguardia dell’ambiente, del patrimonio agroalimentare regionale, garanzia della freschezza, della stagionalità e della genuinità del prodotto con un taglio significativo dei costi finali per il consumatore. Negli ultimi anni sempre più studi hanno dimostrato però che questo parametro, almeno sotto il punto di vista ambientale, si dimostra sovente fallace. Soprattutto in alcuni Paesi.

Se all’origine il termine food kilometres o food miles includeva anche una prospettiva sociale e ambientale nel considerare le problematiche legate alla distribuzione di beni agroalimentari, oggi il termine tiene conto soltanto della distanza percorsa dal prodotto dal campo ai nostri piatti.
In realtà non è il trasporto a incidere maggiormente sulle emissioni di gas serra: partendo dal presupposto che il problema sta alla radice, cioè nella nostra dipendenza dai combustibili fossili, è stato dimostrato infatti
che il trasporto conta poco più del 10% delle emissioni totali, laddove la produzione – e quindi l’uso di carburante, fertilizzanti, pesticidi e, nel caso dell’allevamento, mangime – supera l’80%.

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Secondo la ricerca Comparative study of cut roses for the British market produces in Kenya and the Netherlands per i consumatori anglosassoni è più sostenibile comprare le rose prodotte in Africa piuttosto che quelle prodotte in Europa. La motivazione è semplice: il clima. Fatto salvo che la produzione nei Paesi in via di sviluppo è solitamente più sostenibile di quella nei Paesi sviluppati.
Nonostante i recenti sforzi fatti dal governo olandese per diminuire le emissioni di gas serra in agricoltura, coltivare i fiori in Olanda richiederà sempre molta più energia per riscaldare le serre di quella necessaria in Kenya dove il clima è già di per sé favorevole alla loro coltivazione.

Secondo The validity of food miles as an indicator of sustainable development, prodotto dal DEFRA, il Department of Environment, Food and Rural Affairs del governo britannico, gli inglesi farebbero bene a importare i pomodori dai Paesi mediterranei, in particolare dalla Spagna, nonostante il prevedibile parere contrario della British Tomato Grower’s Association.

In The fallacy of food miles si legge infatti: «a fully laden transport ship can move an item of produce from one side of the world to the other for much less energy than the final consumer uses transporting the same item of produce from the supermarket to their home». A incidere è quindi la portata del carico: se un’auto dovrà trasportare solo qualche decina di chilogrammi di prodotti, in proporzione inquinerà molto di più di una nave o di un treno merci.

Se si prende in considerazione invece il trasporto aereo, la differenza nei costi energetici di produzione tra coltivazioni in ambiente protetto e riscaldato (in serra) nel Nord Europa e coltivazioni non protette nelle regioni bagnate dal Mediterraneo eguaglia approssimativamente il costo del trasporto della frutta. C’è però da aggiungere che il 65% del trasporto globale di prodotti alimentari avviene per via marittima e rappresenta solo il 12% delle emissioni di anidride carbonica dell’industria del trasporto alimentare.

I dati nudi e crudi dimostrano che il totem non va adorato ciecamente, almeno per quanto riguarda i Paesi con un clima meno favorevole, e deve essere quindi ridimensionato tenendo tuttavia conto che dietro ai numeri si nascondono – come sempre – delle persone, e che dal punto di vista sociale e territoriale i vantaggi dell’acquisto di cibo a chilometro zero sono incontestabili e giustificano appieno la scelta di prodotti dall’agricoltore fuori città o al mercato di quartiere.

Maria C. Mancuso
Scrive di agricoltura, ambiente e cibo. Mal sopporta chi usa gli anglicismi per darsi un tono.

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