Del: 10 Luglio 2015 Di: Marta Clinco Commenti: 0

Marta Clinco
@MartaClinco

La guerra in Afghanistan è ufficialmente finita, ma quella sanitaria resta una delle tante emergenze quotidiane del Paese – non l’unica, forse nemmeno la più impellente. Tuttavia, per fornirne una misura, l’entità è tale che il budget messo in campo per farvi fronte ormai 7 anni fa è stato di ben 210 milioni di dollari, su un preventivo di 259. Finanziamenti messi a disposizione dell’Agenzia statunitense per lo sviluppo internazionale (USAID) affinché questa provvedesse alla costruzione delle 641 cliniche previste dal programma dei Partnership Contracts for Health (PCH). L’implementation period del progetto si estendeva appunto da luglio 2008 all’appena concluso giugno 2015.
E quando, a progetto quasi concluso, l’Ispettore Generale Speciale per la Ricostruzione dell’Afghanistan (SIGAR) ha richiesto quali fossero esattamente le cliniche costruite e attivate e quali fossero le loro posizioni esatte, è stata prontamente fornita tutta una serie di coordinate precise e dettagliate.

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Pareva dunque, dati alla mano, che con quei 210 milioni di dollari fossero state effettivamente costruite tutte le cliniche previste dal progetto, patrocinato peraltro dal governo afghano e affidato nella pratica all’USAID americana. Ma a un controllo più approfondito dei dati forniti effettuato dagli uffici del SIGAR, 13 di queste cliniche sembra siano situate al di fuori dell’Afghanistan, 6 in Pakistan, 6 in Tajikistan – una starebbe addirittura galleggiando da qualche parte nel Mar Mediterraneo. Altre 30 risultano edificate in una provincia diversa da quella comunicata dall’USAID. Sono 13 i casi di strutture con le stesse coordinate, 189 i siti che non presentano alcuna struttura fisica entro una quota di 400 piedi rispetto alle coordinate segnalate, poco meno della metà le posizioni che non hanno mostrato alcuna struttura fisica entro il raggio di 800-1000 metri. Inoltre, 154 coordinate non hanno consentito di individuare con chiarezza alcun edificio specifico – di 90 strutture mancano addirittura le coordinate precise.

“Il programma di monitoraggio dell’USAID è rigoroso e preciso”, lo hanno affermato chiaramente diversi portavoce dell’agenzia: il fatto che alcune cliniche risultino ufficialmente edificate nel deserto del Registān o sulle acque del Mar Mediterraneo è un problema del governo afghano, che ha inserito in modo errato i dati di longitudine e latitudine dei siti nei database. Database non gestiti in alcun modo dall’USAID, che sta invece aiutando il Ministero della Salute afghano a migliorare i dati GPS in suo possesso, “ma perché questo sforzo porti dei risultati ci vorrà del tempo”.

Quindi si tratterà di una procedura lunga. Una procedura complessa. Una procedura che richiederà del tempo –ma quanto chi può dirlo, considerato che sono già trascorsi 7 anni dall’inizio dell’operazione. Tra gli acuti commentatori di uno dei pochi articoli pubblicati riguardo la curiosa vicenda, uno spicca per arguzia e intelligenza, suggerendo l’utilizzo della funzione send location di WhatsApp.

John Sopko – Ispettore Generale Speciale per la Ricostruzione dell’Afghanistan, membro del SIGAR – in una lettera del 25 giugno destinata all’amministratore dell’USAID, Alfonso Lenhardt, spiegava i difetti della mappa delle cliniche fornita a maggio 2014 dall’agenzia statunitense, a seguito della richiesta effettuata in vista dello scadere dei tempi previsti per l’operazione. Ed è così che ha avuto inizio la scomoda diatriba: un portavoce dell’USAID ritiene che il SIGAR abbia utilizzato per la propria analisi dati forniti dal Ministero della Salute afghano – un portavoce del SIGAR afferma invece che le analisi siano state effettuate utilizzando dati forniti dall’USAID.
Ad esser confuse non sono solo le coordinate fornite dall’una o dall’altra parte in causa. Di fatto, non è ancora ben chiaro da dove arrivino i dati analizzati, chi li abbia raccolti e registrati – soprattutto, come si intenda procedere ora.

Fatto sta che, almeno in teoria, per provvedere alla gestione e al rifornimento di tali cliniche, dovrebbe almeno essere chiara la loro posizione esatta – tanto all’agenzia statunitense, quanto al Ministero della Salute e in generale al governo afghano.

“To provide meaningful oversight of these facilities, both USAID and MOPH must know where they are. Accordingly…”

Lo spettro degli sprechi nelle operazioni di ricostruzione a seguito dell’intervento USA nel Paese pare essere lo stesso che aleggiava anni fa – scopriremo, poi, a ragione – sugli interventi condotti in Iraq al termine dell’occupazione operata dalla coalizione internazionale, sempre sotto la guida degli Stati Uniti. Aveva avuto inizio nel 2003 con l’amministrazione Bush e si concludeva ufficialmente nel dicembre 2011 con l’abbandono del Paese, oltre che con un sostanziale nulla di fatto. Il conflitto poi si era evoluto da una parte in guerra civile tra fazioni locali – dall’altra, in lotta di liberazione dalle truppe straniere rimaste sul territorio, passate da “brigate di combattimento” a “brigate di assistenza e consulenza”, nonostante abbiano di fatto continuato a combattere al fianco delle unità irachene, e fossero considerate nonostante tutto nemiche.

La diminuzione dell’impegno di forze in Iraq, comunque, aveva comportato anche l’abbandono di diverse strutture e progetti lasciati incompiuti – progetti in cui erano stati investiti milioni di dollari. Tanto che alla fine, tra un finanziamento andato a vuoto e l’altro, era stata stimata una perdita di ben 5 miliardi: una prigione da 40 milioni di dollari nel deserto a nord di Baghdad, un ospedale per bambini da 165 milioni, un acquedotto da 100 milioni a Falluja. Tutti dati calcolati per difetto, basati su circa 300 analisi di ispettori speciali del progetto di ricostruzione. Dati che inoltre non tenevano conto dei costi della sicurezza, che ammontano a circa il 17% della spesa di buona parte dei progetti non terminati.

Certo – è specificato anche nel rapporto finale  sull’operazione redatto dall’Ispettore Generale per la Ricostruzione dell’Iraq (SIGIR) – molte opere sono andate a buon fine. Alcune sono state abortite in fieri, altre hanno presentato ingenti ritardi nei lavori, sia a causa degli scontri che proseguivano nel Paese tra Sunniti e Sciiti, sia per i frequenti attacchi terroristici, sia per la difficoltosa cooperazione tra civili e militari e tra statunitensi e iracheni, tra cui ovviamente non correva buon sangue.

Significativo il caso di una prigione dalla capienza di 3.600 detenuti i cui lavori, iniziati nel 2004 già in ritardo di sei mesi a causa di scontri a fuoco, sono stati sospesi nel giugno 2006, quando gli Stati Uniti hanno deciso di bloccare il progetto per via dei costi sempre più gonfiati. I lavori, ripresi pochi mesi più tardi grazie all’interessamento di alcune aziende, sono stati definitivamente bloccati esattamente un anno dopo, sempre a causa dei continui scontri e violenze. Duro era stato il commento di Stuart Vowen, ispettore generale che aveva supervisionato i lavori di ricostruzione in Iraq sin dall’inizio:

“Quella prigione non vedrà mai un singolo prigioniero iracheno: 40 milioni di dollari buttati nel deserto”.

Tra i supervisori, la paura che il rapporto finale sulle operazioni condotte in Afghanistan possa giungere a conclusioni simili è forte. È solo di poche ore fa l’ennesimo articolo, pubblicato questa volta su BuzzFeed, in cui si racconta di altri sprechi, altri “milioni di dollari buttati nel deserto” in Afghanistan: questa volta si parla di istruzione, di scuole fantasma, strutture fatiscenti senza porte, acqua corrente, edificate in zone di guerra e difficilmente raggiungibili – punta di diamante venduta all’opinione pubblica americana quattro anni fa come antidoto allo spargimento di sangue incessante nel Paese, tanto tra le truppe USA quanto tra i civili.
L’inchiesta si riferisce in particolare alla scuola costruita a Kandahār, seconda città dell’Afghanistan dopo la capitale Kabul, situata nel sud del Paese. Qui l’acqua filtra attraverso il tetto della struttura, e i 200 ragazzi – tutti maschi – che frequentano non hanno accesso all’acqua corrente, né ad alcun tipo di servizio igienico.

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La costruzione è costata più di 250 mila dollari, somma che ha arricchito ulteriormente uno dei signori della guerra locali, che in cambio della concessione del terreno su cui è stata edificata la scuola ha strappato agli americani un contratto del valore di centinaia di migliaia di dollari. Un “successo”, quello dell’istruzione, che agli Stati Uniti è costato solo in Afghanistan più di un miliardo di dollari. E – continua la reporter Azmat Khan – non appena l’orgoglio vacillava, gli ufficiali americani erano pronti a “strombazzare statistiche impressionanti, come il numero di scuole costruite, quello delle ragazze iscritte, dei libri di testo distribuiti, degli insegnanti formati e dei dollari spesi – tutto per aiutare a giustificare i 13 anni di conflitto e i più di 2.000 americani uccisi da quando le truppe americane avevano invaso il Paese nel 2001”.

Tutto per aiutare a giustificare i 13 anni di conflitto e i più di 2.000 americani uccisi da quando le truppe americane avevano invaso il Paese nel 2001

Ma l’indagine – la prima vera resa dei conti giornalistica globale risultato di un’inchiesta interna agli Stati Uniti, basata su visite alle scuole di tutto il Paese, sull’analisi delle banche dati e dei documenti afghani, oltre che su più di 150 interviste – ha mostrato una realtà ben diversa: “scuole fantasma, insegnanti e studenti che esistono solo sulla carta. Lo sforzo americano per educare i bambini dell’Afghanistan è stato scavato dalla corruzione e da obiettivi politici e militari a breve termine che, di volta in volta, hanno avuto la precedenza su la costruzione di un sistema scolastico funzionante ed efficiente. And the U.S. government has known for years that it has been peddling hype”.

Anche ProPublica ha lanciato l’appello “How Have U.S. Efforts to Rebuild Afghanistan Gone? Help Us Investigate”, in cui richiede il contributo di persone che sono state direttamente coinvolte negli sforzi di ricostruzione in Afghanistan e in Iraq – militari, Dipartimento di Stato, USAID o organizzazioni non governative, ma anche cittadini afghani – attraverso la compilazione di un form con le informazioni che si ritengono utili e si desidera comunicare.

Comunque sia, il termine fissato nella lettera del SIGAR è il 30 luglio: entro quella data l’USAID e il Ministero della Salute afghano dovranno aver già provveduto a fornire congiuntamente i dati aggiornati riguardanti le coordinate delle cliniche. Solo così sarà possibile – conclude Sopko – avere prova, se non del funzionamento, almeno della costruzione ed esistenza effettiva di tali strutture in territorio afghano.

Marta Clinco
Cerco, ascolto, scrivo storie. Tra Medio Oriente e Nord Africa.

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