In Arabia Saudita Ali Mohammed al-Nimr, anni ventuno, aspetta da un momento all’altro di essere decapitato e crocifisso. A Ginevra, appena cinque giorni fa, l’ambasciatore dell’Arabia Saudita Faisal Trad è stato confermato a capo del Comitato Consultivo del Consiglio dei Diritti Umani dell’ONU. Il tempismo della contraddizione non è passato inosservato.
Ali Mohammed al-Nimr è stato arrestato nel 2012, al’età di 17 anni, con l’accusa di aver partecipato a una protesta anti-governativa nel 2011. All’accusa se ne sono aggiunte molte altre, e il ragazzo è stato condannato a morte quando era ancora minorenne.
La “Convenzione sui diritti dell’infanzia” dell’ONU, che è stata firmata anche dall’Arabia Saudita, proibisce la condanna a morte per reati commessi da minori di 18 anni. Numerose organizzazioni impegnate nel campo dei diritti umani, come Amnesty International e Reprieve, si sono attivate per salvare la vita ad Ali Mohammed, e hanno dichiarato che il giovane, a cui non è stato nemmeno concesso un avvocato, è stato torturato e costretto a firmare una falsa confessione. Secondo la famiglia di al-Nimr la condanna è dovuta alla parentela con l’imam sciita Sheikh Nimr Baqr al-Nimr, noto per l’atteggiamento critico nei confronti del governo Saudita. L’imam è stato a sua volta arrestato nel 2012 e condannato a morte nell’ottobre del 2014 per aver “cercato intromissioni straniere in Arabia Saudita, aver disobbedito ai suoi governanti e aver imbracciato le armi contro le forze di sicurezza nazionali.”
Nelle scorse ore, grazie alle petizioni di Amnesty International e di Reprieve, e a un’intensa attività su Twitter con l’hashtag #freeNimr, il mondo si è schierato contro la condanna a morte di Ali Mohammed al-Nimr. Il presidente francese Hollande ha ufficialmente chiesto all’Arabia Saudita “di rinunciare all’esecuzione […] nel nome del principio essenziale che la pena di morte deve essere abolita.”
Ciò detto bisogna ricordare che questa non è né la prima né l’ultima delle discutibili condanne a morte perpetrate dall’Arabia Saudita, e che la decisione presa a giugno di mettere a capo del Comitato Consultivo del Consiglio dei Diritti dell’Uomo un esponente dell’Arabia Saudita è stata appena riconfermata.
Il documento che conferma la nomina di Faisal Trad è stato pubblicato il 22 settembre dalla ONG UN Watch, che si occupa nello specifico di monitorare l’operato dell’ONU. Il Comitato Consultivo ha un ruolo fondamentale nell’attività del Consiglio dei Diritti Umani, e, fra le altre cose, ha il potere di selezionare i candidati provenienti da tutto il mondo per più di 77 posizioni che hanno strettamente a che fare con i diritti umani.
Il direttore esecutivo di UN Watch Hillel Neuer ha così commentato la nomina:
E’ scandaloso che l’ONU abbia scelto, a capo di un comitato fondamentale per i diritti umani, un paese che ha decapitato quest’anno più persone dell’ISIS. […] L’Arabia Saudita ha probabilmente il primato per il peggior comportamento nel campo della libertà religiosa e dei diritti delle donne, e continua a tenere in carcere il blogger innocente Raif Badawi. Questa decisione dell’ONU equivale alla decisione di nominare un piromane a capo dei Vigili del Fuoco, e sottolinea la mancanza di credibilità di un consiglio dei diritti umani che già ha tra i suoi membri eletti la Russia, Cuba, la Cina, il Qatar e il Venezuela.
La decisione dell’ONU è stata duramente criticata anche da Ensaf Haidar, moglie del blogger Raif Badawi, condannato a 1000 frustate per aver scritto sul suo blog a favore della libertà di parola e accusato di apostasia. Ensaf Haidar sta conducendo una campagna internazionale per liberare il marito.
Solo nel 2015, secondo dati aggiornati al 22 settembre, l’Arabia Saudita ha portato a termine dalle 134 alle 136 condanne a morte.