Del: 27 Settembre 2015 Di: Redazione Commenti: 0

Lucrezia Ferme

In questi ultimi giorni di settembre, mentre molti di noi sono già chini su banchi polverosi e sudate carte, migliaia di ragazzi provenienti da ogni parte del mondo si stanno riunendo a Cambridge, Massachussets, per il Giant Jamboree di fine estate che vedrà premiati i vincitori della iGEM Competition.

L’International Genetic Engineering Machine (iGEM) Competition nasce nel 2009 presso il MIT come competizione no-profit di Biologia Sintetica rivolta agli undergraduate students, ovvero gli studenti della triennale.

All’inizio dell’estate ai partecipanti è consegnato un kit di parti biologiche, dal quale attingere i “mattoncini” utili per la costruzione di un progetto scelto liberamente dai ragazzi, sviluppando strategie inedite e tanta fantasia. Studenti che si sono appena avvicinati alle basi teoriche delle più disparate discipline scientifiche, dalla chimica all’ingegneria, dalla matematica alla medicina, si riuniscono per formare un team e sviluppare un’idea originale, sulla quale lavoreranno per l’intera estate sotto la supervisione di docenti volontari e dottorandi.

Il clima di eccitazione, l’entusiasmo e la voglia di mettersi in gioco si percepiscono anche solo sfogliando le pagine wiki dei team passati, che fanno parte del progetto e lo illustrano a scopo di divulgazione scientifica. Ai team è richiesto uno sforzo a tutto tondo: sviluppare l’idea, trovare gli sponsor, rifornire i laboratori, occuparsi della divulgazione scientifica, curare l’impatto che l’idea può avere nel contesto sociale e, soprattutto, discutere.

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I progetti spaziano in ogni ambito, dalla medicina all’energetica fino alla metodologie di laboratorio: il team di Heidelberg l’anno scorso ha vinto il primo premio grazie ad una metiltransferasi circolare e termostabile, utilizzabile in PCR per mantenere nel DNA amplificato “l’impronta” di metilazione; altri team hanno sviluppato meccanismi per rilevare infezioni, come Aberdeen con il protozoo che causa la Malattia del Sonno, o lo stato polmonare dei malati di fibrosi cistica; altri si sono cimentati con organismi ingegnerizzati per produrre biofuel o biofilm o per riciclare plastica e degradare coloranti tossici. I team provengono da ogni parte del mondo e non manca certo l’Italia: Trento si ripresenta quest’anno con il terzo progetto e i ragazzi dell’Università del Salento si sono guadagnati il secondo posto nel 2013 grazie a due popolazioni batteriche: una per rilevare il nichel, metallo pesante che inquina le nostre acque, e l’altra per rimuoverlo.

La competizione non risveglia soltanto l’interesse accademico, ma anche quello di industrie biotecnologiche o addirittura della NASA, che nel 2011 ha supportato il progetto di Stanford di Biologia Sintetica spaziale, utilizzando batteri per cementificare il regolith, ovvero il terreno marziano e lunare, e farne mattoni utili per una futuristica colonizzazione.

Il termine “Biologia Sintetica” o “Biologia di sintesi”, traduzione dall’inglese “Synthetic Biology”, fu proposto dal genetista Waclaw Szybalski nel 1974 per designare le nuove possibilità di progettare e costruire nuova vita sintetica.

Neanche quarant’anni dopo, la nascita della prima cellula sintetica fu annunciata da Craig Venter, noto per aver fondato nel 1998 Celera Genomics, compagnia avviata per completare un progetto genoma umano parallelo a quello dello Human Genome Project.

Si sente spesso dire che Craig Venter ha creato la vita, ma le cose non stanno proprio così: è vero che il suo Mycoplasma laboratorium — per gli amici Synthia — non esisteva sulla faccia della Terra prima che ne venisse scritto il codice genetico via computer, ma questa sequenza è stata replicata da una specie esistente e ha avuto bisogno di inserirsi in una struttura derivante da una cellula vivente di una specie già esistente. Come scrive Adam Rutherford, Venter e il suo team hanno non creato ma ricreato una forma di vita in modo sintetico.

Con l’avanzare del progresso tecnologico, l’unico limite rimasto sembra essere quello della nostra stessa immaginazione. Tra i vari esempi che illustrano i benefici dello sviluppo dell’ingegneria genetica e della biologia sintetica è interessante citare il caso di Amyris, la compagnia biotecnologica fondata poco più di una decina di anni fa per combattere una delle malattie più infettive al mondo: la malaria. Secondo i dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, nel 2012 i casi di malaria sono stati 207 milioni e 227 mila le morti, anche se il trend sembra in calo. Per anni il farmaco principale per il trattamento è stato la clorochina, costituente principale sia dello schema terapeutico per la chemioprofilassi che per il trattamento. La clorochina era un ottimo rimedio, facile da ottenere e non troppo costoso, fino a quando non è stata riscontrata la resistenza alla sua azione proprio nella forma più virulenta della malattia, quella dovuta al parassita protozoo Plasmidium falciparum.

L’unico rimedio tutt’oggi rimane l’assunzione di artemisinina combinata con altri farmaci, ma in questo modo il costo della cura può lievitare di dieci o anche venti volte. Amyris è nata appunto per rendere possibile la commercializzazione di artemisinina biosintetica a basso costo, basandosi sulle ricerche di Jay Keasling, professore di ingegneria biochimica dell’Università di Berkley, che nel 2003 è riuscito ad ottenere i primi E.coli ingegnerizzati con geni provenienti da tre organismi differenti, capaci di sintetizzare artemisinina. Da allora Amyris ha fatto strada: nel 2008 ha stretto un accordo con Sanofi-Aventis per la produzione su larga scala dell’antimalarico. Ciò può significare una relativa indipendenza dalle coltivazioni di artemisia annua soggette ai capricci della natura e la possibilità effettiva di abbattere i costi dell’antimalarico. “Dovremmo essere capaci di fare qualsiasi composto prodotto da una pianta all’interno di un microbo”, ha dichiarato Keasling.

Nel frattempo la compagnia si occupa di ingegnerizzare microrganismi al fine di convertire lo zucchero in bio-carburante e, a tal proposito, anche la Synthetic Genomics fondata da Craig Venter si dedica alla produzione della quarta generazione di bio-fuels via biologia sintetica. E non sono i soli. Le big pharma avranno anche abbandonato l’uso della genomica per la medicina personalizzata, ma la medicina personalizzata è solo all’alba del suo potenziale: uno spunto ci viene dato da Andrew Hessel, altro entusiasta della biologia di sintesi e fondatore della Pink Army Cooperation, il cui scopo è, appunto, quello di combattere il cancro una persona alla volta. L’idea di fondo è sviluppare una cura che funzioni per un cancro dotato di nome e cognome in laboratori open source e ciò significa tagliare i costi di una manifattura su larga scala e accorciare di anni i tempi dei trials clinici. Gratuitamente. Non avendo intenzione di sviluppare medicinali su larga scala per un vasto numero di persone, ma solo per una, questa biotech company strutturata come una co-op può permettersi di focalizzarsi solo su un cancro “for free”: la medicina personalizzata è data gratuitamente al cliente in cambio della condivisione dei suoi effetti sul paziente per conoscerne l’efficienza.

La proposta è anticonvenzionale e la definizione di quale modalità di accesso possa etichettare questo accordo tra paziente e ricercatore non è facile. Ad ogni modo vale la pena discutere di ciò e dello sviluppo dell’iter clinico, soprattutto in seguito ai risultati promettenti raggiunti col virus Ebola che ha costretto i ricercatori a tempi brevissimi per la creazione e la sperimentazione di un vaccino in Guinea, vaccino che avrebbe altrimenti impiegato anni ad essere approvato.


Andrew Hessel, con entusiasmo a dir poco virale, parla della virologia sintetica e del significato della Pink Army

Resta da menzionare l’accostamento che viene sovente fatto tra le biotecnologie emergenti e la rivoluzione digitale del personal computer, a partire dal garage. Esiste un movimento, chiamato DIY-bio, dove DIY sta per “Do It Yourself”, che si pone come obiettivo quello di rendere le biotecnologie accessibili a tutti, non solo agli esperti, ma anche e soprattutto ai non esperti. Sono laboratori sparsi per il mondo dalle disponibilità tecnologiche più diverse, dalle grandi città ai piccoli villaggi, il cui filo comune è appunto la possibilità per chiunque sia curioso di avvicinarsi ad un laboratorio, di seguire corsi, apprendere, educare, sperimentare e respirare un clima di totale apertura sia nei confronti delle persone sia delle idee. Il sentimento di fondo è il medesimo di iGEM, entrambi un impareggiabile strumento educativo e di divulgazione. Non a caso dall’anno scorso anche gli open lab possono gareggiare al pari dei team universitari nella competizione internazionale.

Qui il cerchio della nostra breve storia si chiude, ad anello. Come dice Ellen Jorgensen, uno dei fondatori di Genspace, il community lab aperto a Brooklyn cinque anni fa:

We hack hardware, software, wetware, and, of course, the code of life. We like to build things. Then we like to take things apart. We make things grow. We make things glow. And we make cells dance.

C’è da chiedersi se, dopo il personal computer, il prossimo step sarà il personal bio-lab… Non a caso si fanno chiamare bio-hackers. E se per fare l’albero ci vuole un seme, per fare il latte non serve più una mucca. Ecco in tavola un Real Vegan Cheese.

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