Del: 19 Settembre 2015 Di: Sebastian Bendinelli Commenti: 0

Sebastian Bendinelli
@sebendinelli

A trent’anni dalla scomparsa di Italo Calvino – morto il 19 settembre 1985 – ritorna come una risacca il dibattito critico, mai sopito, sul valore della sua opera e sul merito della sua posizione privilegiata nel quadro della letteratura italiana del secondo Novecento.

Tre giorni fa, sul Messaggero, Paolo Di Paolo ha stilato un resoconto delle posizioni di quello che definisce il “partito anti-calviniano”, uno stuolo di critici piuttosto agguerriti e convinti, in buona sostanza, che lo scrittore ligure sia largamente sopravvalutato. La polemica è vecchia: risale già al 1999 il raffronto di Carla Benedetti tra Pasolini e Calvino, tutto risolto a danno di quest’ultimo, accusato d’essere un letterato conformista e ruffiano, un emblema della «rinuncia della letteratura a incidere sul mondo» (come se fosse pacifico che lo scopo della letteratura sia questo).

Più recentemente, in un saggio apparso su «Belfagor», Claudio Giunta si è impegnato a demolire – non senza un certo livore – le Lezioni americane, fraintendendo in gran parte il senso delle quattro (abbozzate) conferenze, e peraltro appuntandosi unicamente sulla prima, la più famosa, proprio come chi degrada la dissertazione sulla Leggerezza a facile repertorio di inspirational quotes. Nell’imputare alle Lezioni scarsa precisione ed eccessiva disinvoltura nei riferimenti letterari, Giunta tradisce il fastidio piccato del filologo di professione che si sente scavalcato dal poeta e non capisce che si tratta di due mestieri distinti.

Ma a Calvino i detrattori non mancarono neppure in vita: famosa è l’acrimoniosa definizione di «cinico bimbo incolume» che gli affibbiò Franco Fortini nel 1959 – efficace sintesi di un’ostilità da sempre giocata sugli stessi elementi.

Dello scrittore si mal sopportano l’aria di superiorità e distacco, la sua posa da spettatore (come egli stesso si definì), interpretata come sintomo di opportunismo: verso la fine del suo saggio, sempre Claudio Giunta sbotta (rivelando che non solo motivazioni d’ordine filologico stanno alla base della sua stroncatura): «A rileggerne oggi la biografia si ha l’impressione che [Calvino] abbia sempre fatto, per tutta la vita, la cosa giusta al momento giusto» (!).

Irritano la sua precoce inclusione nel ristretto canone delle letture scolastiche (unico autore della seconda metà del Novecento, insieme a Eco) e il suo successo di autore pop, che istintivamente suscita diffidenza e, da parte di chi non vuole unirsi al coro entusiastico dei suoi estimatori, pregiudica in senso opposto un’equa valutazione della sua opera. Gli si attribuiscono facilmente vizi di superficialità, banalità, puerilità («bimbo»), vuoto cerebralismo: in un intervento pubblicato il 30 agosto su Doppiozero.com, Matteo Marchesini parla di «mania igienica» e «razionalismo tetragono attraverso cui lo scrittore tende a rimuovere l’aspetto rugoso e viscerale dell’esistenza»; un Calvino che, tra «oliati giri a vuoto» e «fatuità soddisfatta […] costruisce non giochi ma giocattoli, non abitazioni letterarie integre ma case senza cantine – cioè senza gli ombrosi sottosuoli esistenziali destinati alla nekyia […]».

Incontro con Italo Calvino
Calvino con Jorge Luis Borges

Calvino, è vero, è un autore facile da banalizzare. In gran parte ciò si deve proprio alla sua larga diffusione, come succede a tutti i classici. E poi la chiarezza, la limpida fluidità del linguaggio, la capacità di convogliare riflessione filosofica e poesia nella tenerezza malinconica di una fiaba per bambini (com’è Marcovaldo), facile da scambiare per paternalismo e affettata superiorità. Ma si tratta di onestà: al contrario dell’infantilismo vezzoso, lo sguardo del bambino – fin dal Sentiero dei nidi di ragno, come si sa – serve per ricercare un’autenticità perduta, la naturale ingenuità con cui si riconosce la bellezza. È una ricerca di essenzialità. Chi accusa Calvino d’essere superficiale, insomma, non è in grado di andare oltre la superficie della sua lezione.

La contrapposizione tra visceralità e cerebralismo, piuttosto semplicistica a dire il vero, fu alimentata dallo stesso Calvino, che distinse tra scrittori «loici» e «viscerali» e collocò se stesso nella prima delle due categorie, dando autorità al luogo comune più frequentemente agitato da detrattori passati e presenti: quello di un autore che schifa ogni aspetto basso e sporco della vita umana per rifugiarsi in geometrie cristalline e sterili architetture del pensiero, lontane da ogni difficoltà materiale, attraverso una «rimozione stilistica del caos e del dolore» (ancora Marchesini).

Questo giudizio si basa su un’interpretazione limitativa, superficiale (qui sì), puramente estetico-stilistica della categoria della visceralità. E viceversa si cade nell’errore di considerare la “svolta strutturalista” del Calvino più tardo come una fuga dalla realtà, laddove si tratta di un progressivo scavo nell’interiorità, alla ricerca del nucleo ultimo della coscienza, del significato dello stare al mondo. Un lento affondo, metodico e ossessivo, per cui la transizione da narrazione a descrizione è uno strumento necessario, culminante nell’ultima terribile meditazione del signor Palomar, asciuttamente intitolata Come imparare a essere morto.

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La ricerca di sé coincide con la volontà di annullarsi come io pensante, di ridursi a particella indifferente, diventare pura osservazione, senza influsso sull’universo che si osserva: il geometrismo febbrile di Calvino è l’equivalente letterario dell’ascesi del monaco buddista, che cerca il Nirvana. È proprio il difficile rapporto tra l’io e il caos – tutt’altro che rimosso – a condurre i personaggi calviniani alla paralisi della scelta, come esemplifica il claustrofobico racconto eponimo di Ti con zero, oppure alla condizione altrettanto dolorosa di una scelta portata alle estreme conseguenze, come quella del barone Cosimo Piovasco di Rondò. Si trova, come modulo ricorrente, il tentativo di esaurire tutte le possibilità particolari: nella Pantofola spaiata di Palomar (ci sarà un’altra persona dall’altra parte del globo con le pantofole spaiate corrispondenti? O il mucchio di pantofole spaiate nel bazar orientale non si esaurirà mai?) o nel fotografo che, ne Gli amori difficili, cerca di catturare tutte le immagini possibili della propria modella.

Di qui la fascinazione (tutta letteraria, per cui ha poco senso rimproverargli inesattezze) di Calvino per la scienza, in particolare per la fisica e l’astronomia, che raccontano di un mondo da cui l’uomo è assente. E tuttavia la ricerca è soltanto in funzione sua, dell’uomo, che per trovare la propria natura deve alterarla, e ridursi a materia planetaria, cristallo, fascio di luce. A dimostrarlo nel migliore dei modi è un racconto che, guarda caso, è anche letteralmente viscerale: Il sangue, il mare. Qui Calvino, per bocca del suo sempiterno narratore cosmicomico Qwfq, gioca con i concetti di “dentro” e “fuori” – e non è altro che l’antichissima opposizione di uno e molteplice – e con il loro esilissimo confine, la pelle, che può essere rivoltata come un guanto nell’ipotesi di un mare primordiale in cui tutte le individualità nuotavano mescolate, prima che fosse racchiuso, come sangue, dentro di noi. Allora i rapporti umani erano dovuti a un gioco di correnti, membrane attraversate da fluidi a diversa densità, pulsazioni percepite a distanza; oggi, l’amore che ci spinge al contatto, mediato dalla pelle, è la ricerca di quell’unità ancestrale, precedente alla nascita dell’io, ancora percepibile attraverso il fluttuare comune del nostro mare interno (l’unico vero movimento). Ma gli individui restano irriducibili, l’antica unità non si può più ricostruire: i due passeggeri innamorati del racconto si schiantano in automobile,

ma il mare di sangue comune che allaga la lamiera pesta non è il sangue-mare delle origini ma solo un infinitesimo dettaglio del fuori, dell’insignificante e arido fuori, un numero per la statistica dei sinistri nelle giornate di weekend.

Né fuga, né rimozione: ogni rigo di Calvino guarda in faccia l’orrore quotidiano dell’esistenza, e talvolta lo porta all’estremo, all’istinto di morte, con una metodicità quasi sadica; talvolta, invece, lo compatisce con umoristica bonarietà, ma sempre risolvendolo nell’equilibrio della creazione letteraria:

quella di Calvino è letteratura pura, assoluta, non perché sia sciolta dalla realtà, ma anzi perché tutta la racchiude, nel tentativo di renderla sopportabile; l’occhio dell’autore la sorvola.

Sebastian Bendinelli
In missione per fermare la Rivoluzione industriale.

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