Del: 26 Settembre 2015 Di: Elena Buzzo Commenti: 0

Elena Buzzo
@ele_buzzo

Sempre più ci stiamo rendendo conto di come sia cambiato velocemente l’approccio dei più piccoli nei confronti dell’apprendimento e del gioco: tante lamentele provengono dai genitori più nostalgici che ricordano del tempo libero passato all’aria aperta durante l’infanzia. Ora la scuola e le attività pomeridiane occupano tutta la giornata e il resto del tempo viene passato davanti a uno schermo.

“Oggi i bambini non giocano più” ci sentiamo dire sempre più spesso. È vero, fa un certo effetto vederli andare a scuola piegati da pesanti zaini, con la testa china sullo smartphone. Quello che dobbiamo chiederci è: sarebbe lo stesso se al posto dello smartphone ci fosse un libro? O, più in generale: la tecnologia sta gradualmente impedendo ai bambini di socializzare rendendoli sempre più parte di una realtà in cui si sentono passivi? O ci troviamo semplicemente in una fase di passaggio che ancora non abbiamo ben imparato ad affrontare neanche da adulti?
Di fatto il processo in atto nella tecnologizzazione della nostra quotidianità ha avuto termini di progressione brevissimi, è dunque più che lecito porsi domande senza necessariamente giungere a risposte di tipo manicheo individuando chiaramente cosa è bene e cosa è male.

Per vedere calati più nel concreto questi interrogativi, un esempio ci viene fornito dai recenti studi svolti sulla digitalizzazione scolastica.

In generale la tendenza comune è che nei paesi in cui la tecnologia ha una applicazione minima, i risultati scolastici riportati sono peggiori, ma lo sono anche dove essa viene applicata in modo eccessivo; i migliori risultati vengono ottenuti laddove si segue una oculata via di mezzo.

Lo studio Students, Computers and Learning: Making the Connection svolto dall’OCSE (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) nel 2012, pone in evidenza che non vi è alcuna corrispondenza tra l’introduzione della tecnologia nelle nostre vite e l’adozione della stessa nell’istituzione scolastica. Nelle scuole dove viene applicata si hanno risultati peggiori in matematica, scienze e lettura, risultati che dipendono principalmente da come vengono utilizzate le nuove tecnologie nelle classi e con quali obiettivi.

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Infatti, la chiave sta nello sfruttare al meglio gli apparati tecnologici per incrementare e valorizzare un lavoro che già viene svolto tra insegnanti e alunni, non per sostituirlo; inoltre se non viene mantenuto quello che gli esperti chiamano “human engagement”, ovvero il rapporto umano tra allievo e insegnante, l’introduzione della tecnologia nell’insegnamento sarà solo motivo in più di distrazione.

Per quanto riguarda il nostro Paese i dati parlano chiaro: l’utilizzo dei computer in classe è al di sotto della media degli altri paesi analizzati dall’OCSE (19 minuti al giorno contro 25) e la dotazione tecnologica nelle classi non compete con i vicini europei (un computer ogni sedici studenti in Italia contro un computer ogni sette studenti in Europa); ma il divario più ampio lo si avverte nella classifica dei Paesi europei dotati di computer con connessione a internet, dove l’Italia si colloca al penultimo posto.

Tuttavia i risultati ottenuti dai quindicenni italiani dal 2000 al 2012 sono migliorati di 4 punti  percentuali come testimonia l’indagine PISA (Programme for international Student Assessment). Il miglioramento, secondo gli esperti, è dovuto alla riduzione di alunni con difficoltà di apprendimento e all’introduzione meno invasiva delle tecnologie nella didattica.

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Nel momento in cui vengono applicati metodi didattici legati alle innovazioni del nostro secolo, all’interno di un sistema scolastico estremamente conservatore, come quello del nostro Paese, questo sistema risulterà obsoleto in alcuni punti nodali.
Non affrontare la situazione e rifiutare le possibilità innovative è pari a non accogliere un elemento importante che caratterizza già da tempo la quotidianità di tutti e che ha importanti potenzialità da sfruttare.

Tramite l’apporto della digitalizzazione nelle classi, si stanno modificando i linguaggi di base di comprensione e apprendimento; è un processo che sta cambiando lo stesso sviluppo della cultura molto rapidamente tanto da non essere ancora affiancato da un adeguato apparato di studi che ne permettano uno sfruttamento il più mirato possibile. Se gli insegnanti non vengono preventivamente preparati all’uso dei nuovi mezzi si va incontro all’enorme contraddizione che si sta sviluppando all’interno delle classi italiane e non:

gli studenti, detti “nativi digitali” si trovano più preparati in materia rispetto agli insegnanti e di fatto a tutti gli adulti, detti “immigrati digitali”.

Si crea dunque una grande distanza che viene colmata dalle abilità dei primi, sovvertendo il ruolo educativo dei secondi su cui da sempre si basa la trasmissione dei saperi.

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L’unica soluzione lungimirante sarebbe quella di istruire solo dopo essere stati aggiornati a propria volta, garantire sì l’apporto tecnologico, ma anche limitarlo, approfondire il lavoro tramite percorsi digitali che non vadano a sostituire integralmente il percorso didattico: solo così viene garantito e mantenuto il rapporto educativo, nonché umano, con l’alunno.

L’introduzione della tecnologia nella didattica non deve significare l’immediata perdita del cartaceo, la scomparsa degli esercizi di calligrafia, l’abbandono di astucci, penne e diari, ma un supporto per svolgere approfondimenti e lavori di gruppo se necessari.

Elena Buzzo
Studentessa di Lettere Moderne. Scrivo per non parlare. Mi piace il cinema, la birra, ma non il gelato.

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