Pietro Trevisan Volta
Dopo le stragi a Diyarbakır e il massacro di Suruç, sabato 10 ottobre due bombe hanno massacrato i manifestanti della sinistra filocurda dell’HDP e dei sindacati che si erano riuniti nella capitale turca Ankara per chiedere pace e democrazia. Si parla di un centinaio di morti e 245 feriti, da aggiungere alla somma delle vittime che da inizio 2015 la violenza nell’Est del Paese ha portato a una cifra imprecisata, che si aggira intorno alle 2.000 unità, tra civili, militanti del PKK e forze governative.
È in queste condizioni – in un Paese che scivola sempre più in una tensione politica e sociale che ricorda con orrore un passato sanguinoso – che i cittadini turchi torneranno alle urne il prossimo 1° novembre.
In una Turchia lacerata, confusa e incredula, c’è però un uomo che di certezze ne ha, e da vendere: il presidente Recep Tayyip Erdoğan sa esattamente ciò che vuole ottenere, e certo non si preoccupa di nascondere le proprie ambizioni.
Mentre il corteo pacifista di Ankara è stato sventrato da una violenza il cui mandante resta ignoto solo fino a un certo punto, l’ironia vuole che un’altra manifestazione contro il terrorismo abbia avuto luogo a Istanbul poche settimane fa, ma con un esito decisamente diverso Uniti nello slogan “milioni di respiri, ma una voce contro il terrorismo”, la folla di partecipanti mobilitati da associazioni vicine al governo ha accolto a braccia aperte proprio lui, il presidente Erdoğan.
Il presidente della Repubblica turca non si è lasciato frenare da quel vincolo costituzionale che lo impegnerebbe all’imparzialità, utilizzando il palcoscenico già preparato per proclamare al popolo turco le sue aspettative: “Vi chiedo di fare uno sforzo storico il 1° novembre: mandate 550 deputati nazionali in Parlamento. Sapete cosa intendo”. Accanto a lui, l’attuale Primo Ministro ad interim e candidato dell’AKP Ahmet Davutoğlu: capire cose intendesse non richiede troppa fatica. Uno spettacolo che si è ripetuto il 4 ottobre, questa volta nel cuore europeo di Strasburgo, dove il capo spirituale dell’AKP ha radunato migliaia di turchi espatriati sotto l’insegna dell’antiterrorismo – qui ovviamente inteso anti-PKK – con la speranza di racimolarne i preziosi voti.
Il non troppo celato piano del Presidente consiste sostanzialmente nel trasformare il sistema parlamentare turco in un sistema presidenziale, in modo da consolidare la propria egemonia politica in una Turchia che – secondo l’ideologo geopolitico di partito ed ex ministro degli esteri Davutoğlu – ha il compito di affermarsi come potenza internazionale, diventando elemento chiave del Medio Oriente e nazione-guida del mondo musulmano.
Questo “neo-ottomanismo”, condito dalle megalomanie personalistiche di Erdoğan e da un difficile rapporto con il nazionalismo kemalista, ha subìto un duro colpo nelle ultime elezioni dello scorso giugno, quando la tanto agognata maggioranza assoluta, necessaria per un governo monocolore e per una riforma costituzionale, è stata negata all’incredulo Presidente dai cittadini turchi. Con l’ingresso nel Parlamento turco dell’HDP di Selahattin Demirtaş — coalizione tra diversi partiti di sinistra filo-curdi e portavoce di altre minoranze discriminate — ottenuto grazie al superamento di una soglia di sbarramento del 10%, le elezioni di giugno 2015 hanno rappresentato l’apice di un movimento sociale di opposizione iniziato con le famose proteste del parco di Gezi del 2013.
Delusa dal partito socialdemocratico kemalista CHP – alla cui debolezza Erdoğan deve molto – la parte della società turca progressista, laica e comprensiva delle esigenze curde ha visto nell’HDP una nuova speranza. Contemporaneamente, gli elettori curdi si sono compattati intorno al partito, indignati dall’indifferenza del governo nei confronti del destino dei combattenti curdi in Siria. Tutto ciò ha permesso per la prima volta l’accesso di un movimento filo-curdo nella Grande Assemblea Nazionale Turca. Platealmente ignorando il voto democratico, Erdoğan non si è di certo impegnato per rendere possibile un governo di coalizione, aspettando il primo momento utile per indire nuove elezioni. La sua opinione era già palese ad agosto, quando ha dichiarato che il sistema turco era di fatto già presidenziale: al popolo turco non resterebbe che compiere il proprio dovere, dando all’AKP la maggioranza parlamentare per formalizzare ciò che già di fatto esiste.
Ciò ci riporta al bagno di sangue con cui questo articolo è iniziato, e all’unica domanda che esso suscita: perché? Perché intervenire in Siria bombardando la resistenza curda? Perché far ripetere ai media turchi che il terrorismo del PKK è più pericoloso dello Stato Islamico? Perché il riaccendersi di un conflitto che nel 2013 sembrava incanalarsi verso un processo di pace, facendo sprofondare l’Est della Turchia in quella che è, di fatto, una guerra civile?
La coincidenza tra successo elettorale dell’HDP e la nuova ondata di violenza è agghiacciante e non casuale. Le ultime bombe di Ankara non fanno che confermare quella che sembra la più macabra e banale delle strategie della tensione, che ben conosciamo: se il governo perde il consenso, occorre creare un nemico, demonizzare il diverso, compattare il popolo facendo leva sui più atavici istinti nazionalistici e tribali.
E di nemici, l’AKP ne trova ovunque: il terrorismo curdo, l’occidente complottista, le organizzazioni eversive interne, i giornalisti sovversivi, i comunisti, gli armeni, i bambini che camminano per strada. Il motto è equiparare HDP e PKK, spargere più sangue possibile, spingere il Paese sull’orlo del caos, per potersi presentare poi come l’unica, vera garanzia di stabilità.
Proprio grazie alla promessa di stabilità, di benessere economico e di pace sociale, Erdoğan vinse le prime elezioni, nel lontano 2003. Allora l’AKP si presentava come partito moderato, economicamente liberale e socialmente tradizionalista, che offriva alla Turchia una prospettiva di sicurezza politica dopo decenni di instabilità; di libertà religiosa, in un Paese dove il dogma del laicismo kemalista veniva percepito come soffocante; di pacificazione con la minoranza curda – addirittura si parlava di ingresso nell’Unione Europea, idea che oggi fa sorridere per quanto lontana dalla realtà. Sul concetto di stabilità Erdoğan ha consolidato il proprio potere, cavalcando la modernizzazione economica, sostenuto da un tasso di crescita del PIL impressionante. Una volta al governo, l’attuale Presidente ha sistematicamente depotenziato i contropoteri democratici, assoggettando giustizia e media, rendendo “innocuo” l’esercito. Ha iniziato la riforma costituzionale, legittimata a suo dire da un referendum — vinto, ma boicottato dai curdi. Da Primo Ministro, si è fatto eleggere presidente della Repubblica: fino a giugno 2015, soltanto le proteste di Gezi e qualche scandalo giudiziario sembrano averlo intralciato.
Oggi, però, le crepe nel muro iniziano a cedere: i tassi di crescita sull’8-9% di qualche anno fa sono solo un ricordo, la disoccupazione è al 9% e la lira turca continua a precipitare. Il pugno duro servirà anche a polarizzare gli elettori, forse anche a vincere le elezioni del 1° novembre.
Ma il caos politico e sociale, la guerra civile nell’est, avranno conseguenze durature per tutto il Paese, anche a livello economico. Giocando col fuoco, Erdoğan rischia di spaventare i turchi più di quanto il suo carisma autoritario sia capace di tranquillizzarli.
Il suo precedente “pragmatismo” politico e l’odierna strategia della tensione non mascherano altro che una sconsiderata improvvisazione da panico, fondata sulla convinzione che il popolo segua ciecamente e incondizionatamente il proprio capo. Rinfocolando le antiche contraddizioni e le tensioni sotterranee della società turca, Erdoğan non si rende conto che il prossimo a saltare in aria potrebbe essere lui.