Del: 3 Ottobre 2015 Di: Arianna Bettin Commenti: 0

Novecentonovantaquattro. È il numero delle sparatorie registrate dal novembre 2012 – l’inizio del secondo mandato di Obama – a oggi. L’ultima, la 994esima, quella di mercoledì a Roseburg, Oregon, in cui hanno perso la vita nove persone.
Dalle pagine del Guardian, Nicky Wolf racconta di un Barack Obama rassegnato a cifre ormai fuori controllo: si parla di 300 attentati nel solo 2015, in proiezione, uno al giorno.

“In qualche modo” dichiara mestamente il Presidente americano “tutto questo è diventato routine. La notizia è routine. La mia risposta da questo podio finisce con l’essere routine. E così il dibattito che ne consegue. Siamo diventati insensibili. Ne abbiamo parlato dopo Columbine e Blacksburg; dopo Tucson, dopo Newtown, dopo Aurora, dopo Charleston”.

Non ci sarebbe nemmeno bisogno di enumerarle una ad una: che qualcosa non funzioni è sotto gli occhi di tutti, da decenni.

Strana idea di libertà, quella americana. The Land of Freedom. La magnificata Carta Costituzionale degli Stati Uniti promette la difesa dei diritti individuali, dell’autodeterminazione, e ne fa l’idolo di una nazione. Libertà, cioè uguaglianza, cioè democrazia. Un’equazione di una banalità sconcertante.
E di fatti è sbagliata, oltre che pericolosa, nella teoria e nella pratica, e si conferma tale tanto più si presta a essere distorta.

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È su di essa che s’innesta la propaganda – a oggi sempre vincente – dei Repubblicani e della lobby delle armi. Perché se è ormai routine il discorso di Obama, routine è anche la risposta: è una mia precipua libertà poter acquistare e detenere armi. È un mio diritto, esattamente com’è un mio diritto utilizzarla nel momento in cui si attenta alla mia vita e alla mia proprietà. E chi stabilisce che qualcuno stia cercando di ledermi? Io, la mia propria persona, in coscienza, e quindi tutti, perché siamo, noi tutti cittadini critici e consapevoli, liberi ed eguali nella democrazia. L’equazione costituente è rispettata, il caso è chiuso. Agli abusi ci penserà a posteriori il braccio spietato della giustizia — ché non s’è mai visto che per prevenire un male di pochi si tocchi il bene dei molti! È un’intrusione illegittima dello Stato nella mia vita, nei miei affari: per principio, ancor prima che per interesse, è una pretesa da rigettare.

Una retorica allettante, in sé coerente e compatta, persuasiva, ben radicata nella cultura statunitense. Quella di Obama rischia d’essere una lotta contro i mulini a vento, almeno finché si manterrà nell’orizzonte di pensiero degli avversari. È un discorso che vale tanto per la regolamentazione del porto d’armi, quanto per tutte le altre grandi battaglie intraprese dall’ormai lontano 2009: educazione, sistema sanitario, previdenza e giustizia sociale, ambiente — per citare le più rilevanti.

Obama ha dalla sua la realtà delle cose, ma non basta. Il dolore, l’indignazione, il grido di denuncia a fronte dell’ennesima sparatoria non sono argomenti sufficienti, proprio perché alla lunga diventano routine. Ci si abitua all’evidenza se non le viene data una profondità.

Quello che ci si aspettava da Obama è che uscisse, una volta per tutte, dalla gabbia intellettuale dei conservatori e dei poteri forti, che andasse oltre le frasi di rito e le prese d’atto. Una rivoluzione culturale prima che politica. Obama, il primo presidente afroamericano degli Stati Uniti d’America, era l’incarnazione stessa della sua missione.

«A well regulated Militia, being necessary to the security of a free State, the right of the people to keep and bear Arms, shall not be infringed. »
« Essendo necessaria alla sicurezza di uno Stato libero una milizia regolamentata, il diritto dei cittadini di detenere e portare armi non potrà essere infranto. », recita il II emendamento della Costituzione.

Non è avventato quindi parlare di rivoluzione. I propositi di Obama prevedono per forza di cose un intervento invasivo sulle fondamenta dello Stato e lo smantellamento dell’equazione liberista. In un orizzonte che voglia essere almeno vagamente orientato al socialismo, libertà, uguaglianza e democrazia non possono essere eguagliate: impossibile negare la tensione, la contrapposizione fra le tre. L’unica possibilità data è la ridefinizione dei tre termini e dei rapporti che tra loro intercorrono, e da lì, dalla ridefinizione dei principi, costruire un nuovo discorso politico, che sia però appetibile e che spezzi la resistenza delle lobby.

Bisogna fare ordine: c’è un presupposto, l’uguaglianza, un mezzo, la democrazia, e un fine, la libertà.
In un’ottica simile, un cittadino con una pistola non è più accettabile, così come non lo è la gigantesca sproporzione tra ricchi e poveri. In quest’ottica, e solo in quest’ottica, possono essere assunti come obiettivo politico e non come mali necessari.

Un’impresa immensa, verosimilmente eccessiva per essere realizzata nell’arco di sette anni, e forse la rassegnazione di Obama è dovuta a questo. Le elezioni sono alle porte e gli ultimi mesi del suo secondo mandato hanno il gusto del fallimento, se non altro parziale.
È giunto il momento di passare il testimone, senza la garanzia che chi lo raccoglierà sarà in grado di arrivare fino in fondo alla corsa.

Arianna Bettin
Irrequieta studentessa di filosofia, cerco di fare del punto interrogativo la mia ragion d'essere e la chiave di lettura della realtà.
Nel dubbio, ci scrivo, ci corro e ci rido su.

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