Del: 31 Ottobre 2015 Di: Redazione Commenti: 0

Davutoğlu che abbraccia bambini, Davutoğlu con alcuni anziani, Davutoğlu sorridente accanto a un soldato. Basta una passeggiata per le strade di Istanbul per rendersi conto che il Paese è in campagna elettorale, e che a dominarla, con la sua asfissiante onnipresenza, è il partito al governo, l’AKP. L’attuale premier ad interim e candidato alle elezioni legislative, Ahmet Davutoğlu, è ovunque. Se si lavora di fantasia, e si sostituisce al suo ubiquo sorrisetto sbilenco il volto più imponente di Recep Tayyip Erdoğan, il gioco è fatto: ci si è fatti un’idea di chi sia il vero protagonista delle elezioni di questa domenica.

Domani i cittadini turchi torneranno alle urne, appena cinque mesi dopo le ultime elezioni. Insoddisfatto dal risultato del voto di giugno, l’attuale presidente della Repubblica, ex primo ministro e indiscusso capoclan del Partito Giustizia e Sviluppo, ha fatto disinvolto uso dei propri poteri istituzionali per vanificare ogni possibile coalizione. Un’alleanza di governo con il maggiore partito di opposizione, il CHP kemalista e socialdemocratico, avrebbe messo in discussione il potere assoluto dell’AKP e del suo Re Sole. Più semplice sciogliere il Parlamento, far capire ai cittadini di essersi distratti troppo nelle cabine elettorali, e dare loro l’opportunità di votare una seconda volta, ma meglio.

Nel frattempo il Paese è rapidamente disceso nel caos.

Il governo – per altro temporaneo – si è mosso con forza contro i combattenti curdi dentro e oltre il confine, colpevoli di avere rianimato le speranze del movimento indipendentista in concomitanza con la guerra siriana. L’est del paese è stato assediato dall’esercito, e il PKK è tornato nel mirino come la minaccia principale alla sicurezza nazionale. Un’ondata di violenza si è impadronita della Turchia, accolta a braccia aperte da Erdoğan, sicuro di farne buon uso a livello politico. Infine sono arrivate le bombe. L’ultima, nel cuore della capitale, è costata la vita a un centinaio di manifestanti vicini alla sinistra filocurda dell’HDP, scesi in piazza per chiedere pace.
Al tragico si è aggiunto il grottesco, con una serie di azioni repressive contro quella (piccola) parte della stampa critica nei confronti del governo. Ai giornalisti arrestati per “insulti” nei confronti della presidenza si sono aggiunte le testate accusate di “propaganda terroristica”, e gli attacchi in stile squadrista alle sedi delle redazioni. Il 26 ottobre, la holding Koza İpek, legata al movimento islamico di Fethullah Gülen – in rotta con Erdoğan dopo anni di vicinanza – è stata epurata dal governo dopo accuse simili. Dopo la sentenza di un tribunale di Ankara, i media controllati dal gruppo, i quotidiani Bugün e Millet e i canali televisivi Bugün TV e Kanaltürk, si sono nottetempo allineati alla maggioranza della stampa turca, fedele megafono della linea governativa.

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Altrettanto grottesco è stato l’atteggiamento dell’Europa, troppo preoccupata a dividersi sulla questione dei profughi. Oltre all’imbarazzante silenzio, emblematica è stata la visita ufficiale di Angela Merkel a Istanbul, a meno di due settimane dal voto. Con il miope pragmatismo che contraddistingue le politiche della Cancelliera, il governo tedesco ha ritenuto opportuno promettere – a nome dell’Unione Europea – qualcosa come 3 miliardi di euro alla Turchia, nonché la libertà di circolazione per i cittadini turchi nell’area Schengen e la ripresa delle trattative per l’ingresso del Paese nell’Unione. Tutto ciò in cambio di maggiore cooperazione nella gestione dei flussi migratori. Più che Realpolitik, un regalo, in termini di legittimazione politica, nei confronti di un governo responsabile della violazione della maggior parte dei diritti umani cari all’Europa, pochi giorni prima delle elezioni che decideranno il futuro dell’intera regione.
Nonostante tutto ciò, non sembra che i risultato elettorale possa essere così diverso da quello di giugno. In un contesto così polarizzato, il sangue e la violenza inevitabilmente rafforzano le convinzioni politiche. Salvo sorprese, l’HDP dovrebbe superare la soglia di sbarramento del 10%, cosa che l’AKP vorrebbe assolutamente evitare. Nonostante la massiccia campagna denigratoria nei suoi confronti, il partito di Selahattin Demirtaş ha ottenuto autorevolezza, e i suoi sostenitori hanno pagato con la vita il loro coraggio. Non è improbabile che sottragga altri voti al maggiore partito di opposizione, un CHP spesso timido e indeciso, dato intorno al 26%. L’AKP potrebbe guadagnare qualche punto percentuale dal panico creato negli ultimi mesi, e conquistare circa il 40% dei voti: troppo pochi per un governo monocolore nel caso l’HDP superasse il 10%, ma abbastanza per la maggioranza assoluta se la sinistra filocurda dovesse rimanere fuori dal Parlamento. Infine, l’estrema destra nazionalista dell’MHP è data intorno al 15%.
Nel caso le urne dovessero produrre la fotocopia delle elezioni di giugno, si aprirebbero scenari che nessun analista politico osa predire. Nonostante le diverse affinità, un’alleanza tra AKP e MHP non è stata raggiunta in agosto, ed è stata in seguito rinnegata dallo stesso leader dei Lupi Grigi, Devlet Bahçeli, timoroso di alienarsi i nazionalisti duri e puri, le cui radici politiche sono ben distanti da quelle di Erdoğan. La radicalizzazione dell’ultimo periodo potrebbe però aver reso una coalizione più conveniente agli occhi dell’estrema destra. Sul fronte opposto, un’unione anti-AKP formata da MHP, CHP e HDP sarebbe infattibile, data l’evidente incompatibilità tra HDP e MHP, troppo radicale per un Paese pur storicamente abituato a coalizioni trasversali. L’ultima opzione, una “grande coalizione” tra AKP e CHP – possibilità scartata a giugno dallo stesso Erdoğan – sarebbe probabilmente la migliore per il futuro della Turchia, e potrebbe tenere aperto uno spiraglio di normalizzazione per un Paese sull’orlo del baratro. Ma se da un lato lo stesso Erdoğan rappresenta il maggiore ostacolo per un tale accordo, dall’altro la disponibilità dei kemalisti a coalizzarsi con il suo partito, dopo gli eventi degli ultimi mesi, sembra essere calata a zero. Tutto sembra dipendere dal risultato della sinistra filocurda, e stando agli ultimi sondaggi, l’HDP dovrebbe essere capace di entrare nella Grande Assemblea Nazionale – brogli permettendo.
C’è un altro quesito da risolvere: nessuno può dire quanto il voto democratico possa effettivamente incidere sulla volontà di Erdoğan, e sul suo potere. Abbiamo già avuto modo di vedere quanto l’attuale presidente tenga in conto la democrazia rappresentativa. In un sistema politico in cui tutti i contropoteri istituzionali (e non) sono stati disinnescati – non per ultimo l’esercito, che fino agli anni ’90 faceva e disfaceva governi a suo piacimento – è molto difficile tracciare la linea sulla quale Erdoğan vorrà o dovrà fermarsi. Se il voto popolare non dovesse attenersi alle sue aspettative, e se la democrazia turca dovesse confermare tutte le debolezze che oggi lascia intravedere, il Paese potrebbe prendere una deriva ancora più autoritaria e violenta.
Queste elezioni possono ridare speranza alla democrazia turca, o soffocarla definitivamente. Domenica, la Turchia si troverà al bivio. Forse però, la strada è già stata imboccata: ancora non sappiamo quale.

Pietro Trevisan Volta

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