È alquanto bizzarro se non comico il fenomeno avvenuto ieri, domenica 22 novembre, su Twitter, per opera di parecchi utenti di nazionalità belga, che, attraverso la rete, hanno dato vita a un filone di comicità rasserenatrice in una giornata di snervante apprensione per lo stato di estrema allerta (livello 4, il massimo) emanato dalle autorità in tutto il Paese, in particolare nella capitale Bruxelles, in cui diverse operazioni poliziesche mirate all’arresto di possibili jihadisti hanno occupato quasi tutta la giornata (dalle 10.30 am fino alla mezzanotte circa).
L’allarme-attentato ha praticamente obbligato i brussellesi a rinchiudersi al sicuro nelle proprie case, dove, un po’ per noia e un po’ per la voglia di sapere cosa stesse accadendo, in molti hanno iniziato a twittare le notizie raccolte qua e là sulla vicenda: le foto scattate, le voci sentite e le proprie opinioni, bollandole tutte con l’hashtag #BrusselsLockdown (Bruxelles è blindata), che come #PrayForParis è divenuto in breve tempo il simbolo virtuale della situazione.
A questo flusso di cinguettii si è unito quello dei naviganti nel resto del mondo, che, spinti dalla tensione del momento, hanno frettolosamente ricondiviso gli originali talvolta aggiungendo il proprio resoconto, mentre i profili di svariati media hanno utilizzato l’hashtag per far guadagnare visualizzazioni ai propri articoli, quasi tutti grezzamente costruiti sulla pura base dei tweet in arrivo da Bruxelles.
In pochi hanno pensato che questo meccanismo entropico sarebbe potuto diventare un pericoloso strumento nelle mani di un criminale che stesse tentando la fuga o un’offensiva.
La ridondanza informativa dei social network può essere infatti usata come un periscopio: difficilmente la polizia può scovare in esso delle informazioni utili alla cattura del ricercato (che si trova nel caso fortunato dell’ago nel pagliaio), ma quest’ultimo può mettere assieme i resoconti degli “utenti amatoriali” per ipotizzare gli spostamenti e le intenzioni dei militari e agire di conseguenza.
Un effetto simile a questo avrebbe potuto comportare un numero di vittime ancora maggiore durante il blitz delle truppe speciali al Bataclan di Parigi: nel caso in cui il commando di terroristi avesse avuto un contatto con un uomo all’esterno, magari con lo specifico compito di informare e dirigere la squadra, costui avrebbe potuto farlo attingendo non solo alle notizie reperibili sui social network, ma anche a quelle dei mezzi di informazione ufficiali, in particolare le televisioni, anche straniere, che hanno incoscientemente mandato in onda in diretta le immagini degli agenti che si preparavano all’irruzione.
Lo stesso vale per il fenomeno che ha vanificato l’efficacia delle iniziative #PorteOuverte o #PortesOuvertes, con le quali i parigini avevano deciso di ospitare chi fosse rimasto esposto al rischio di ulteriore violenza.
L’utilizzo degli hashtag menzionati era implicitamente riservato a chi quella sera si trovasse per strada a Parigi in cerca di un riparo e a chi potesse effettivamente offrirlo; eppure, la stragrande maggioranza di post etichettati con #PortesOuvertes hanno origine da utenti che segnalano l’iniziativa (tra cui anche i media), o che lodano il buon cuore dei francesi, o addirittura che scrivono un pensiero per la popolazione colpita, ma che non possono essere d’aiuto in quanto non si trovano a Parigi.
In questo modo, il canale di Twitter si è intasato di una miriade di messaggi compassionevoli ma inutili allo scopo, dunque l’inettitudine del web ha vanificato lo sforzo di persone generose e messo a repentaglio l’incolumità di molte altre.
E che dire degli eventi di terrorismo che seguirono l’attacco a Charlie Hebdo?
In quel caso, dei terroristi avevano fatto irruzione in un edificio con dei civili e, accerchiati dalla polizia, avevano già ucciso tutti gli ostaggi tranne uno, che era riuscito a nascondersi in una botola senza farsi vedere.
Costui, anziché cercare di comunicare direttamente con le autorità, rivelò la propria posizione pubblicamente su Twitter, dimenticandosi però di precisare che i criminali non si erano accorti della sua presenza.
Per via di questa incomprensione, i soldati, che avrebbero potuto mettere fine al confitto usando delle semplici granate stordenti, dovettero aspettare molto tempo prima di intervenire, valutando il rischio della morte dell’ostaggio, rischio che in realtà non esisteva.
Anche per via dei fatti precedenti, stavolta pericolo non è sfuggito agli strateghi della gendarmeria belga, che verso le dieci di sera ha chiesto ai media e agli altri naviganti del web di non rivelare ulteriormente le manovre poliziesche in atto.
Per tutta risposta, l’irriverente popolo di twitter ha preso l’ordine alla lettera e ha continuato a usare la piattaforma pubblicando altri contenuti, usando però sempre lo stesso hashtag (#BrusselsLockdown).
Iniziando dapprima con pensieri del momento, selfie e pornfood, la volontà di estraniarsi dal clima di ostilità ha infine portato la comunità della rete a trovarsi d’accordo su un soggetto che sta agli antipodi di ogni violenza: i gatti.
Ed è così che per tutta la sera sono state tweettate immagini di felini di ogni razza e taglia dai cittadini ancora “sotto assedio” e da quelli che nel resto del mondo hanno espresso la propria approvazione e si sono uniti alla causa.
Il risultato?
Chi ha utilizzato #BrusselsLockdown per collezionare informazioni sulla situazione in città si è ritrovato a scorrere verso il basso un’interminabile pagina piena zeppa di micetti adorabili (anche se non sono mancati i messaggi xenofobi), sperando che prima o poi, tra un siamese, un persiano, una cesta di cuccioli e un gatto-unicorno sarebbe finalmente apparsa un’informazione consona.
In questo modo si è evitata la fuga di notizie, le operazioni militari si sono concluse senza vittime, i media hanno documentato l’accaduto in modo più tradizionale (e professionale) e gli abitanti della rete si sono fatti una risata, soprattutto gli italiani, memori dei bei tempi in cui i felini erano diretti a Salvini.
Ma vista la gravità dei tempi che corrono, sarebbe cosa buona che ognuno si prendesse le sue responsabilità e cercasse di immaginarsi un po’ più spesso quali siano le conseguenze dei propri post.