In collaborazione con SIR
di Monica Bertino
La popolazione della striscia di Gaza – un milione e ottocento mila abitanti, di cui metà bambini –è destinata a superare i due milioni entro la fine di questo decennio. È una delle zone più densamente popolate del pianeta. Il 95% dell’acqua disponibile, però, è quasi completamente avvelenato e quindi non utilizzabile per l’eccessiva quantità di nitrati e fertilizzanti utilizzati per l’agricoltura e per la quasi totale mancanza di controlli delle acque di scolo.
Inutile dire che questa situazione porta a risvolti sanitari terrificanti, tanto che un quarto delle malattie a Gaza derivano dalla pessima qualità dell’acqua.
Inoltre, lo sfruttamento delle energie è al 217% col rischio sempre più alto di prosciugare le falde acquifere e, secondo il rapporto del Programma Ambientale delle Nazioni Unite (Unep), per evitare il rischio della scarsità idrica bisognerà finanziare un impianto di dissalazione .
Di questo progetto se ne parla dal 1996 ma i problemi riguardo la sua realizzazione non sono solo politici, bensì primariamente economici: la dissalazione è un processo particolarmente dispendioso (il suo costo si aggira
attorno ai cinquecento milioni di dollari),dal momento che richiede enormi quantità di energia. Tuttavia, rimane comunque l’unica soluzione possibile.
Attualmente le risorse idriche sfruttate dalla popolazione israeliana e palestinese sono il fiume Giordano con i suoi immissari e una falda acquifera sotterranea che attraversa Israele e Cisgiordania.
Circa il 98% dell’acqua del Giordano è stata deviata attraverso le dighe costruite da Israele, Siria e Giordania. L’acqua deviata da Israele viene raccolta nel lago di Tiberiade per poi essere immessa nel sistema idrico nazionale israeliano. Solo una minima parte del fiume Giordano viene sfruttata dalla popolazione palestinese in Cisgiordania.
La seconda risorsa consiste nella falda acquifera sotterranea. Dopo il 1967, la costruzione di nuovi pozzi richiede un’autorizzazione preventiva da parte di Israele; ciò ha spinto i palestinesi a scavare dei “pozzi illegali” puntualmente distrutti dalle forze di sicurezza israeliane.
Il livello del consumo domestico procapite di acqua da parte dei palestinesi è di 25-30 litri al giorno, livello decisamente inferiore ai 150 litri raccomandati dall’OMS.
La scarsità delle risorse è anche in parte dovuta alle cause naturali conseguenti al cambiamento climatico.
Gli impatti socioeconomici che ciò potrebbe causare sono: aumento del prezzo dell’acqua, migrazioni di comunità intere, instabilità sociale, allontanamento o eliminazione del lavoro nelle campagne.
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La necessità di controllare le risorse idriche in Palestina emerge per la prima volta nel 1919 dai rappresentanti del Movimento Sionista, che avevano già ottenuto dall’Onu il controllo del neonato Stato di Israele. Non bisogna
dimenticare che proprio in quell’anno si tenne la Conferenza di Pace di Parigi dove i vincitori della Prima Guerra Mondiale si incontrarono per stabilire il nuovo equilibrio geopolitico, ed Israele era supportato dalla Gran Bretagna nella creazione di uno Stato ebraico in Palestina che avesse in mano anche il controllo delle risorse idriche
(Alture del Golan, la valle del Giordano e del Litani). Durante la Guerra dei Sei Giorni combattuta nel giugno del 1967 Israele occupò gran parte di questi territori estendendo il proprio controllo sulle risorse idriche della Palestina, distruggendo inoltre 140 pozzi della falda acquifera sotterranea utilizzati dalla popolazione palestinese.
Oggi l’acqua per l’agricoltura rappresenta circa il 70% di quella totalmente usata e lo slogan “Il mondo ha sete perché ha fame” coniato dalla FAO per la Giornata Mondiale dell’Acqua 2013 è quanto mai appropriato.
Il fabbisogno idrico mondiale cresce vertiginosamente e una politica di controllo va adottata per non fare insorgere nuovi conflitti e per consolidare gli accordi di cooperazione, per poter utilizzare al meglio ciò che consumiamo e che perdiamo per cattivo uso e mancato riciclo delle acque di scarico.
Entro il 2025 il fabbisogno d’acqua aumenterà oltre il 50% secondo l’IFPRI (International Food Policy Research Institute) e se il conflitto israelo-palestinese non può considerarsi a prescindere dalla cornice politica, economica e culturale in cui si sviluppa, senza dubbio per arrivare alla fine di questo conflitto ci si dovrà anzitutto basare su un agreement che includa la sovranità dei bacini idrici. Questione spinosa che, come quella dei profughi palestinesi, finora è sempre stata rimandata.




