
Aggiornato: 03/12/2015
Il meccanismo diplomatico che dovrebbe mettere d’accordo le nazioni sulle strategie per fermare il cambiamento climatico è ben descritto da una metafora coniata da Green.Tv: the Climatebus, il pulmino del clima, che anziché portare i bambini a scuola, porta gli abitanti della Terra verso un futuro sostenibile.
A partire dal Rio de Janeiro Earth Summit del 1992 (il primo incontro politico mondiale a tema ambientale), il Climatebus ha raccolto i molti Paesi che vogliono imbarcarsi in un accordo cooperativo, più o meno ufficiale, nel tentativo di proteggere i propri territori dalle conseguenze del surriscaldamento globale.
Due anni dopo è stato firmato un documento che, in questo viaggio ecologico, ha lo scopo di trainare i partecipanti: la United Nations Framework Convention on Climate Change (UNFCCC), in base alla quale le nazioni sottoscriventi si impegnano a ridurre le proprie emissioni di gas serra antropogenici e a raccogliersi periodicamente alle Conferences of the Parties (COP), in cui si vota per stabilire in che misura ciascun membro deve contribuire agli obiettivi concordati.
Scortati dalla UNFCCC, i passeggeri del Climatebus hanno fatto tappa a una ventina di COP, dove per oltre un decennio hanno discusso e contrattato col solo intento di mettere in atto una strategia, forte e condivisa, per contrastare il cambiamento climatico.
Ma, quando si sale a bordo del pulmino per prendere posto, sorge un problema: chi deve guidare?
Al momento di fissare gli impegni vincolanti, ogni associato (chi più chi meno) si tira indietro, ritenendo ingiusti gli inconvenienti finanziari e politici della scelta fatta per lui dagli altri.
Nessun Paese ha il coraggio di auto-limitarsi in maniera decisiva perché teme che sarebbe l’unico a farlo, nessuno vuole farsi carico di uno sforzo ecologico – e quindi economico – maggiore di quello altrui, ed è per questo motivo che la suddetta strategia finale non è mai stata definita.
Dopo un lungo periodo di negoziati politicamente passivi, qualcosa si è finalmente mosso e ora molti tra i passeggeri spingono a per rimettere il Climatebus sulla strada per Parigi, dove, dal 30 novembre all’11 dicembre 2015 si terrà la ventunesima Conference Of the Parties.
Entusiasmo climatico nonostante tutto
Il 2 novembre 2014 è stato pubblicato dall’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change) il 5° Rapporto di Valutazione, la più recente e autorevole analisi sul cambiamento climatico, che ribadisce la precarietà della situazione attuale e smonta ancora una volta le tesi degli scettici: il fenomeno è innegabile, e se entro il 2100 la temperatura media terrestre dovesse superare i livelli preindustriali di oltre 2 °C (cioè, se dovesse salire di 1,1 °C rispetto ad oggi), allora l’entità delle mutazioni del clima cresceranno sempre di più e raggiungeranno uno stato inerziale difficilmente rallentabile, mettendo in serio pericolo l’intero ecosistema, con le annesse comunità umane.
La “tipping points table” fa parte di uno studio condotto dal professore di Scienze della Terra Tim Lenton, dell’Università di Exeter (UK). La tabella riporta le stime di quanto un certo fenomeno viene influenzato dalla variazione di un parametro. Si noti come un semplice incremento di temperatura di 1 – 2 °C provochi comunque un aumento del livello del mare dai 2 ai 7 metri.
Per quanto gravoso, questo responso è veritiero, ma anche controproducente: in passato, le associazioni scientifiche e ambientaliste hanno cercato di coinvolgere le masse nel tema del climate change attraverso campagne mediatiche per lo più pessimiste e talvolta estreme, che, se da una parte hanno funzionato, dall’altra hanno generato dei grossi filoni di demoralizzazione, nichilismo e accanito negazionismo.
Eppure la stessa IPCC ha più volte sottolineato che non è troppo tardi per intervenire, che le giuste decisioni politiche comporterebbero un significativo miglioramento della situazione e che il raggiungimento del “target 2°C” è ragionevolmente possibile.
Dunque bisognerebbe attuare un processo di sensibilizzazione propositivo, dando maggior risalto alla linea di pensiero secondo cui chi ha la facoltà di agire sul problema deve accantonare pretesti e preoccupazioni per concentrare le forze disponibili su ciò che può essere fatto.
Forse è proprio questa la considerazione che, accompagnandosi ad una serie di segnali positivi tra cui nuove dinamiche socio-politiche, nuove idee e nuove tecnologie, ha determinato l’inizio dell’entusiasmo “climatico” per l’imminente COP21.
Una rivoluzione burocratica: dall’approccio top-down all’approccio bottom-up
Per cominciare, alla COP di Copenaghen (2009) è stato introdotto un nuovo metodo per stabilire gli impegni vincolanti di ciascun membro della UNFCCC: mentre prima era l’assemblea a imporre a ogni Paese una serie di azioni atte alla mitigazione del climate change (approccio top-down, “dall’alto verso il basso”), ora si chiede a ciascuno di essi di presentare degli obiettivi “personali” che siano sufficientemente coraggiosi (approccio bottom-up, “dal basso verso l’alto”).
In tal modo si facilitano i rapporti internazionali e si permette alle nazioni di regolare il proprio sviluppo con maggior flessibilità, così che l’iniziativa ambientale non viene più percepita come un vincolo, ma come un’opportunità di crescita in termini di vivibilità e di economia.
Questi target, chiamati Intended Nationally Determined Contributions (INDC), devono essere compilati in modo eloquente e approfondito seguendo il format preparato dal segretariato del UNFCCC, al quale vanno consegnati tramite un’apposita piattaforma online prima dell’inizio della COP.
La commissione analizza i contributi volontari delle diverse nazioni – che possono anche aggregarsi tra loro, ad esempio l’Italia è compresa nell’INDC europeo – li confronta con una stima della disponibilità finanziaria di ciascuna di esse, calcola le conseguenze climatiche, formula un giudizio di quanto sono ecologicamente intraprendenti e infine stila una graduatoria di merito che viene pubblicata online assieme agli INDC di tutti i partecipanti.
La mappa mostra i giudizi assegnati ai contributi volontari nazionali proposti da ogni nazione.
Le conseguenze dell’approccio bottom-up: da spettatori a protagonisti
Come già detto, i negoziati sul clima sono sempre andati a rilento, così, mentre i capi di stato raggiungevano accordi poco significativi o ai quali non tutti hanno aderito, le popolazioni già esposte alle conseguenze del surriscaldamento globale sono rimaste in una posizione di impotenza, in balia delle scelte altrui, mentre nel frattempo l’entità dei danni continuava ad aumentare.
Le loro proteste sono state raccolte dalle associazioni e dai movimenti ambientalisti, che fino a poco tempo fa erano i principali se non gli unici portavoce in grado di smuovere le decisioni politiche internazionali.
Adesso però, con l’approccio bottom-up, il segretariato UNFCCC può ricevere gli INDC non soltanto dalle nazioni, ma anche dalle regioni, provincie, città, industrie, società, associazioni e investitori, a cui viene data l’opportunità di mostrare la propria intraprendenza ecologica.
In questo modo si crea un feedback meritocratico che, se opportunamente alimentato da un sistema di ricompense in visibilità e premi monetari, può spingere l’economia verso una maggiore sostenibilità.
Alcune proposte di questo genere sono già state attuate, come il progetto NAZCA (Non-State Actor Zone for Climate Action), che riunisce i contributi volontari di oltre 10.000 enti, o come C40, una confederazione di città che si è posta come obiettivo uno sviluppo a basso impatto ambientale.
Proprio le città hanno un ruolo determinante nella lotta al climate change, esse ospitano infatti il 75% circa della popolazione mondiale e per ridurne l’impronta ecologica dovranno potenziare sempre di più la mobilità sostenibile, il risparmio energetico e la raccolta differenziata.
Investimenti di mitigazione: il business fossil-free e la corsa alle rinnovabili
La domanda di sostenibilità che l’approccio bottom-up ha instillato in tutto il mondo ha trovato una rapida risposta da parte del mercato, che per ripararsi dagli effetti del fussil fuel divestment ha preparato una vasta gamma di affari a basso impatto ambientale: proposte di investimento fossil-free, che non coinvolgono il consumo di combustibili fossili.
A trarne il maggior beneficio sono le tecnologie rinnovabili, soprattutto eolico e fotovoltaico, che si ritiene possano fornire gran parte dell’energia richiesta da Paesi in via di sviluppo come la Cina, l’Africa e l’America latina.
Il grafico mostra l’installazione annuale di impianti fotovoltaici. I colori scuri indicano una maggiore installazione di potenza da un anno all’altro.
Questa green economy riceve ulteriore impulso dal fatto che, secondo l’IPCC, per restare al di sotto della soglia dei 2 °C sarebbe necessario azzerare tutte le emissioni di gas climalteranti antropogenici entro il 2050, dando per inteso che oltre tale data l’intero fabbisogno energetico dovrà essere soddisfatto esclusivamente da fonti rinnovabili.
La retrocessione dei colossi inquinanti
Il suddetto riassestamento dell’economia verso una configurazione più ecologica trova riscontro in alcuni eventi recenti di una certa rilevanza ambientale e finanziaria.
Ad esempio, l’11 novembre 2014, al vertice annuale dell’Associazione dei Paesi dell’Asia-Pacifico (APEC), il presidente cinese Xi Jinping e quello americano Barack Obama hanno aperto una trattativa per ridurre le emissioni di gas serra generati da Cina e Stati Uniti.
Il fatto che a inizio novembre 2015 Obama si sia opposto alla costruzione dell’oleodotto trans-Canadese “Keystone XL”, sembra essere una prova delle sue buone intenzioni; fa invece pensare il contrario la firma apposta in aprile 2014 e in ottobre 2015 sui trattati commerciali TTIP e TTP, che prevedono agevolazioni economiche anche per il mercato di combustibili fossili e idrocarburi.
Verso la fine di settembre 2015 un altro episodio ha suscitato un grande entusiasmo: Shell, il gigante petrolchimico olandese, ha abbandonato il progetto di trivellazione al largo dell’Alaska, evitando così di pompare ulteriore ossigeno nel mercato del petrolio.
È invece un gigantesco scandalo quello che nell’autunno 2015 ha investito Exxon Mobil, altro colosso del fossile, che, secondo l’inchiesta “ExxonKnew” di InsideClimate, sarebbe colpevole di aver raccolto dati falsi sull’andamento della CO2 per più di trent’anni, oltre ad aver finanziato scienziati corrotti e reti di disinformazione per screditare le teorie ufficiali sul surriscaldamento globale.
Non c’è dubbio che questo avvenimento avrà forti ripercussioni sull’opinione pubblica, sul mercato dei combustibili fossili e sulla credibilità di chi sostiene “scientificamente” che il clima non sta mutando.
Infine, qualche settimana fa, nel Regno Unito, il segretario all’energia e al cambiamento climatico, Amber Rudd, ha dichiarato di voler chiudere entro il 2025 tutte le centrali a carbone presenti sul suolo britannico, per puntare poi su nucleare e gas naturale.
Consapevolezza ambientale: la greve testimonianza italiana
Nelle graduatorie di merito l’Italia finisce spesso nella posizione del fanalino di coda: tristemente incoronata come la nazione più ignorante del pianeta, oltre che la seconda più corrotta d’Europa, non abbiamo certo un passato green di cui vantarci; anzi, il famoso dossier di Legambiente “Rifiuti s.p.a”, indica come proprio la nostra nazione sia stata incubatrice e teatro di eco-reati terrificanti.
Aver vissuto in prima persona le tragedie ambientali causate dalle mafie — come la cementificazione, lo smaltimento illecito dei rifiuti e il mercato del “cibo criminale” — potrebbe essere stato il fattore chiave che ha coinvolto il popolo italiano in un processo di sensibilizzazione che ora ci pone ai primi posti nel mondo per la consapevolezza e l’attenzione rivolta al tema del cambiamento climatico.
Fonti: http://www.ipsosglobaltrends.com
La COP 21 di Parigi: qual è la posta in gioco?
Non sarà la COP21 a garantire il raggiungimento del “target 2 °C” e probabilmente, come nel caso di molte altre Conferences Of the Parties, non sarà né una vittoria né una sconfitta: non ci sono ancora i presupposti internazionali perché si giunga a una strategia di cooperazione decisiva.
Infatti, gli INDC del 2015 sono già stati analizzati e secondo i risultati ufficiali dovrebbero provocare un incremento di temperatura di 2.7 °C, un risultato ben lontano dal livello accettabile, ma che dimostra quanto sia possibile migliorare la situazione rispetto alla preoccupante alternativa zero: se la civiltà continuasse a svilupparsi con i ritmi attuali, l’incremento previsto per il 2100 ammonterebbe a 4.5 °C.
D’altro canto, è praticamente certo che la conferenza condurrà alla stesura di un nuovo documento ufficiale, il “Protocollo di Parigi”, che tratterà principalmente i temi di mitigazione, adattamento e risposta economica al climate change. Avrà natura vincolante, validità decennale (dal 2020 al 2030) e dovrebbe ottenere la firma di gran parte dei Paesi aderenti all’UNFCCC.
Il vero dibattito riguarderà invece alcuni aspetti giuridici, burocratici, finanziari e procedurali, ad esempio si discuterà se rendere i contributi volontari nazionali (INDC) legalmente vincolanti.
L’entusiasmo però deve esserci, e deve avere un’altra origine: i segnali precedentemente illustrati indicano che il clima è propizio e che siamo già in possesso degli strumenti per arrestare le forzanti del surriscaldamento globale.
Bisogna solo sperare che lo stesso entusiasmo raggiunga anche il tavolo dei negoziati.
NB: L’articolo riprende in parte le analisi esposte dai relatori dell’evento “I cambiamenti climatici: dagli scenari globali all’aula del politecnico” (19/11/2015), dalle stesse sono state tratte anche alcune immagini. Gli altri dati provengono principalmente dall’IPCC, dall’UNFCCC e dai siti italiani www.italiaclima.org e www.climalteranti.it