L’enciclopedia Treccani da una definizione ben precisa del talent show: <tä’lënt šë’u> (it. <tàlent šóu>) locuz. sost. ingl., usata in it. al masch. – Programma televisivo dedicato alla scoperta di nuovi talenti in campo artistico (musica, danza, recitazione).
Negli ultimi anni si è parlato tanto – forse troppo – della nocività dei talent, macchinari demoniaci in grado di sfornare nuove icone pop (che tanto “icone”, poi, non sarebbero state) incarnanti il degrado artistico-musicale dei tempi moderni. Si è puntato il dito contro l’aspetto spettacolare e televisivo del prodotto, e, soprattutto, si è insistito sulla scarsa cultura musicale dell’italiano medio, quello non troppo colto né troppo aperto mentalmente, che, con i propri voti, fa procedere nella competizione un “talento”, eliminandone un altro.
La logica e le statistiche dicono che quello di X Factor – il più noto tra i talent shows musicali – è un pubblico abbastanza omogeneo, appartenente per la maggior parte a una fascia d’età compresa tra i quindici e i venticinque anni, interessato più a trovare la nuova pop star (che si tratti di un teen idol o di una boyband o del nuovo album di cover natalizie in sconto al Carrefour) che alla musica. Perché la musica vera, di certo, non si fa ad X Factor.
Il talent show del fattore X, creato dal produttore britannico Simon Cowell nel 2004 ed esportato in Italia nel 2009, è arrivato alla sua nona edizione, battendo ogni record di ascolti e di voti (3 milioni e mezzo solo durante l’ultima puntata, di giovedì 26 novembre).
A differenza degli anni scorsi, in quest’ultima edizione è stata data la possibilità di partecipare anche alle band, un’innovazione che rischia di cambiare le sorti e la reputazione dell’intero programma. Già alle audizioni balzava all’occhio la nutrita rappresentanza di musicisti provenienti da quella scena musicale definita (spesso impropriamente) con il titolo di “indie” — quei gruppi, per intenderci, che a Milano si esibirebbero al circolo Magnolia, e che nessuno si immaginava di vedere sul palco di un talent show.
Oggi, a un passo dalla semifinale, dei cinque concorrenti rimasti in gara due fanno parte proprio della categoria delle band: i Moseek, electro-rock band romana, e gli Urban Strangers, duo napoletano che ha portato sul palco di X Factor un acoustic hip hop che ha letteralmente stregato pubblico e giudici, rendendoli i favoriti alla vittoria finale. Entrambe le band, legate a etichette indipendenti, rappresentano una rivoluzione all’interno del programma, lasciando di stucco tutti coloro che non avrebbero mai e poi mai messo nella stessa frase i termini “indie” ed “X Factor”. Ancora più stupefacente, in questo senso, risulta la reazione del pubblico, che pare adorare questi nuovi “intrusi”, favorendoli nettamente a concorrenti che ricordano molto da vicino i Lorenzo Fragola e le Chiara Galliazzo delle scorse edizioni.
Degni di nota sono anche i semifinalisti della categoria Over 25, Giovanni Sada, venticinquenne barese e frontman di una band screamo, e Davide Sciortino, palermitano emigrato a Londra, che nell’ultima puntata del talent ha saputo portare sul palco una cover dei SBTRKT, risultando decisamente credibile.
Insomma, l’asticella sembra essersi alzata, e benché le critiche rivolte alla tecnica dei concorrenti siano ancora molte, è sicuramente apprezzabile questa apertura a un mondo musicale più diversificato e, concedetemi il termine, meno mainstream.
Il pubblico stesso sembra essere mutato, almeno in parte, e forse si tratta di una reazione a catena: una maggior offerta di materiale interessante attira fasce di pubblico prima escluse, la “generazione Arctic Monkeys” non è più così restia a guardare un paio di puntate di X Factor (sebbene in pochi lo ammettano), e parecchi di loro decidono addirittura di votare in favore di quegli artisti che considerano migliori.
O forse, come ipotesi più generale, i gusti stanno mutando e si è iniziato a premiare la creatività, il “nuovo” — molto spesso mettendo in secondo piano la tecnica canora e musicale dell’artista stesso.
Si è tanto insistito negli scorsi mesi circa il perché band e artisti indipendenti dovessero partecipare a un talent show destinato a rimanere un prodotto televisivo, legato all’aspetto visivo e spettacolare più che a quello musicale, più alla forma che alla sostanza. La risposta a questo quesito pare allo stesso tempo semplice e desolante: gli artisti indipendenti sono approdati ad X Factor perché di valide alternative per arrivare a un pubblico abbastanza nutrito da riempire non uno stadio, ma quantomeno un pub di provincia, non ce n’erano, soprattutto se non si è di Milano, soprattutto se non si è nel giro giusto.
La musica italiana che vuol fare discreti numeri sembra tristemente destinata a passare dai talent.
A inizio ottobre, quando il programma era appena iniziato, c’era chi sosteneva che X Factor, come qualsiasi altro show televisivo, non fosse il posto adatto per chi volesse davvero far musica, e che, di conseguenza, le band indipendenti entrate nel talent avrebbero avuto vita breve. Oggi, che la vittoria di uno dei due gruppi ancora in gara sembra altamente probabile, sarebbe il caso di vedere la questione da un’altra prospettiva: un talent come X Factor rimarrà sempre un prodotto televisivo con logiche televisive, una gara tutta sponsor e telecamere, dove aspetto fisico e look dei concorrenti vogliono la loro parte (ma questo, non prendiamoci in giro, avviene da sempre anche nella musica “vera”), tuttavia non è detto che tale aspetto debba per forza escludere una qualche dignità, e, perché no, una qualche qualità musicale.
Forse il pubblico dei talent cerca qualcosa di nuovo, o forse non è più lo stesso di prima. Forse non è più così improbabile che, in futuro, i talent possano parzialmente cambiare la propria veste, arrivando, forse, a scoprire davvero nuovi talenti musicali.