Sara Tamborrino
Fino al 15 novembre il Teatro Litta si fa scenario di una tra le più celebri opere di Shakespeare, l’Otello, una produzione della Compagnia Teatro Libero. Passata alla storia come la tragedia della gelosia, questa rappresentazione racchiude in sé molte altre sfaccettature, e il regista ed attore Corrado d’Elia è stato abile nell’interpretare secondo l’ottica della sua già affermata poetica la complessità psicologica del dramma.
L’azione vede come protagonista il moro Otello, generale al servizio della Repubblica di Venezia, il quale, dopo aver conquistato l’amore della giovane Desdemona, figlia del senatore Brabanzio, ed averla sposata in segreto, parte insieme a lei per Cipro, minacciata dai turchi. Là l’infido Iago inizia a tessere i suoi intrighi contro il moro, instillando nella sua mente il dubbio che la bella moglie lo tradisca con il luogotenente Cassio. Per riuscire nel suo intento si serve di Roderigo, innamorato non corrisposto di Desdemona, grazie al quale scredita il luogotenente così da fargli perdere il suo grado, per poi spingerlo a chiedere aiuto proprio alla sposa del generale affinché interceda presso di lui in suo favore. All’accorata insistenza della donna nei riguardi di Cassio si aggiunge in seguito quella che pare la prova definitiva del tradimento: un fazzoletto, il primo dono di Otello alla sua amata, che Iago con la complicità di sua moglie Emilia fa rinvenire negli alloggi del luogotenente. A questo punto il generale, sopraffatto dal dolore e dalla furia, uccide la giovane moglie.
Lo spazio in cui si svolge la tragedia di Otello è buio e sinistro, un non-luogo, una sorta di scatola nera come la notte della mente, l’inconscio nel quale si collocano le pulsioni umane, l’ambiguità ed il dubbio. Non è Venezia infatti il palcoscenico della vicenda, ma Cipro, un’isola lontana ed esotica per gli spettatori dell’epoca, una realtà che viene privata di qualunque struttura sociale; resta solamente l’uomo in quanto tale, senza impalcature, con i suoi sentimenti e le sue incertezze.
Quest’atmosfera è ben rappresentata grazie alla scelta di una scenografia completamente nera e spoglia, ad eccezione di un trono posto tra due pannelli scuri, simbolo di un potere che non è semplicemente quello politico; in quest’opera non vi sono re o regine, ma soltanto uomini in balia delle proprie passioni. Un fattore che dà ulteriore concretezza visiva a questa dimensione emozionale è la presenza di due pozze d’acqua, elementi scenici con cui i personaggi interagiscono continuamente, bagnandosi in esse o percuotendone la superficie. Questo liquido ha una fortissima valenza simbolica: rimanda alla vita nella sua forma embrionale, ma anche alla morte, nel momento in cui l’acqua si trasforma in una tomba. È una sostanza purificatrice, come dimostra il ripetuto immergersi in essa da parte di un Otello in cerca di sollievo, che tenta invano di lavare via da sé tutti i dubbi e le angosce che lo tormentano. D’altra parte, però, nelle mani di Iago diventa un veleno, che una volta iniettato rimane attaccato a chi ne è vittima. L’acqua rappresenta gli umori, le passioni che portate al loro estremo possono essere distruttive.
È in questo elemento che Iago sguazza, attingendo il veleno che pian piano instillerà con i suoi sussurri nell’animo di tutti coloro con cui entra in contatto. La sua malvagità e la sua sete di vendetta sembrano essere ingiustificate, risultano incomprensibili; questo proprio perché non vi è un reale senso in ciò che egli compie, né una ragione più ampia: Iago rappresenta il male assoluto, l’incarnazione di un anticristo subdolo e manipolatore che ordisce le sue trame a danno dell’umanità intera. È un individuo totalmente falso che a parole si finge amico di tutti pur odiando chiunque. Corrado d’Elia è particolarmente bravo a rendere credibile questo personaggio, a cui aggiunge dei tratti sarcastici e scanzonati che riescono a coinvolgere e ad abbindolare persino il pubblico, con il quale è in continuo dialogo; infatti soltanto agli spettatori svela fin dall’inizio le sue reali intenzioni, e nessun altro è in grado di coglierle. Dal trono su cui siede è sovrano della mente di Otello, è il negativo della sua coscienza, lo influenza e ne guida le decisioni come un incantatore.
A vestire i panni del moro è Alessandro Castellucci, inseritosi all’interno di uno spettacolo già esistente e collaudato, che ha dovuto affrontare una notevole sfida.
“Non mi sono mai trovato ad interpretare un personaggio così diverso da me”, dichiara, ed il lavoro risulta ulteriormente apprezzabile a causa della difficoltà costituita dalle incongruenze emotive e le costanti oscillazioni caratteriali di Otello, a tratti tenero e un istante dopo furioso e omicida.
Il buio che domina la scena è anche la sua confusione, la cecità di fronte all’inganno di Iago che lo porta a commettere il gesto estremo.
L’epilogo travolge tutti i personaggi in uno scatenarsi di violenza che ne contempla la rovina. La conclusione ad anello riprende la dichiarazione di Iago “Io non sono quello che sono”, frase che riassume il fulcro di una tragedia che pone nella totale incertezza del reale la causa dell’incomunicabilità che impedisce ai protagonisti di vedere il male perpetrato da Iago; qualsiasi cosa può essere creduta vera oppure falsa, ciò che sembra essere oppure il suo opposto.
Il finale è stato tagliato rispetto alla versione originale, ed esclude qualunque spiraglio di giustizia o riscatto: Otello non arriva mai a scoprire la verità, Iago non paga per i suoi crimini; in questo modo la tragicità della vicenda tocca il suo culmine.
Una simile estremizzazione dei sentimenti umani cela in sé il tentativo di tradurre in immagini la ricerca di modelli emotivi che possano servire da monito per l’uomo e le sue immutabili passioni; questo è uno dei motivi che rendono grande e sempre attuale e godibile uno spettacolo come questo.