
In Italia uno degli sport più diffusi è quello di discutere sull’aria fritta: mentre il Paese intero si genufletteva alla “innovativa” campagna di comunicazione su Twitter di Eni, contro il servizio mandato in onda da Milena Gabanelli durante la trasmissione di Rai3, Report, in pochi si sono accorti della manifestazione di centinaia di lavoratori del colosso energetico di Stato davanti agli uffici di San Donato milanese.
Sono arrivati a centinaia (l’Ansa scrive 1000 lavoratori ma in realtà il numero è stato inferiore) dagli stabilimenti di Mantova, Ferrara, Ravenna, qualcuno addirittura dal polo sardo di Porto Torres. Sono settimane di mobilitazione per i lavoratori di Versalis – il ramo d’azienda che si occupa di chimica, plastiche e “chimica verde”. Versalis è controllata al 100 per cento da Eni e dà lavoro a 4.400 persone in tutta Italia – 2.800 solo fra Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna – all’interno degli otto stabilimenti presenti sull’intero suolo nazionale: un settore che attraversa la penisola, dallo stabilimento petrolchimico di Priolo-Siracusa fino ai terreni inquinati – in perenne bonifica – della laguna veneziana di Porto Marghera.
“Un pezzo d’Italia economica che rischia di sparire nel nulla” attaccano compatti i delegati dei sindacati chimici di Cgil, Cisl e Uil. Perché? Perché da ottobre di quest’anno si sono fatte più insistenti le voci allarmate sulla possibile cessione del 70 per cento delle quote di Versalis a SK Capital Partners, un fondo d’investimento americano-iraniano. È stato lo stesso amministratore delegato di Eni, Claudio Descalzi, a lanciare questa ipotesi di partnership, il 23 ottobre rispondendo ai giornalisti. “Il 70 per cento non è una partnership, è una cessione” spiega un delegato Rsu (Rappresentanze Sindacali Unitarie) della Femca-Cisl nel polo di Mantova. “Eni, con una quota così residua, non avrà più alcun potere di indirizzare la politica industriale del gruppo né tantomeno difendere i posti di lavoro in Italia”.
Claudio Descalzi
Le voci si rincorrono ma dagli uffici di rappresentanza dove in mattinata si è svolto il Cda non arrivano né conferme né smentite. Anche il Ministero del Tesoro, che controlla Eni con il 30 per cento delle quote, tace sull’arrivo degli americani. Un silenzio imbarazzante visto che nelle ultime settimane sono arrivate richieste di chiarimento sia dalla Commissione attività produttive della Camera, presieduta dall’ex segretario della Cgil, Gugliemo Epifani, che dalla Commissione Industria al Senato, dove il Presidente è Massimo Mucchetti – ex editorialista del Corriere della Sera – che nel suo ruolo a Palazzo Madama ha già dovuto affrontare questioni scottanti, come la procedura di amministrazione straordinaria nei confronti di Ilva-Taranto o i dossier Alitalia e Telecom Italia.
Il futuro è incerto per centinaia di lavoratori: secondo Reuters, il fondo SK Capital Parners è disposto a mettere sul piatto 1,2 miliardi di euro: cifra che corrisponde esattamente al piano d’investimento già presentato a giugno dai vertici di Versalis, per razionalizzare gli impianti produttivi e fare interventi ambientali per mettere in sicurezza lo stabilimento di Mantova – area della Lombardia dove i tassi di tumore-sarcoma sono cinque volte superiori alla media nazionale, per via delle diossine nell’aria e degli strati di benzene nelle falde acquifere. Sostanze che provengono dall’immenso polo petrolchimico vasto 260 ettari. Un’altra quota d’investimenti sarà ripartita fra Marghera e Porto Torres per riconvertire il petrolchimico a biocarburanti e chimica verde – in Sardegna questo processo già è stato avviato da anni nel tentativo di non mettere in ginocchio una delle poche realtà produttive ancora esistenti nell’isola.
“Un miliardo e duecento milioni non bastano, sono giusto il costo delle strutture e degli impianti, ma non ci sono garanzie per il personale e il know-how” è la risposta di chi si oppone a questa operazione finanziaria – che secondo indiscrezioni di stampa sarebbe orchestrata dall’Ente Nazionale Idrocarburi con l’ausilio del gruppo bancario britannico, Barclays.
Ma nonostante il clima battagliero che prosegue da mesi fra azienda e dipendenti e che troverà nuova linfa nel malumore di questi giorni – i lavoratori scenderanno nuovamente in piazza il 20 gennaio 2016, in occasione dello sciopero generale nel gruppo Eni, con tanto di manifestazione davanti alla sede romana dell’Eur – lo sconforto rimane alto. È noto da anni che Eni voglia liberarsi della chimica, anche a causa di performance non eclatanti del settore – nelle classifiche internazionali l’Italia si colloca in una pessima 67esima posizione – per investire nella sola ricerca e sopratutto nel binomio esplorazione-estrazione nei giacimenti in Siberia, in Nigeria, Norvegia, Panama e dovunque si ottenga una concessione. Tutte attività all’estero con una ricaduta quasi nulla sui posti di lavoro in Italia. Per tutti gli anni duemila questa pulsione di Eni, e che era già propria dell’ex amministratore delegato Paolo Scaroni, è stata tenuta a freno per ragioni elettorali. Poi, nella primavera 2014, arriva a capo del colosso Claudio Descalzi, ex numero 2 del gruppo, e uomo di fiducia del premier Matteo Renzi. E la musica cambia. Quale migliore occasione per vendere il ramo chimico d’azienda? È proprio questo il periodo che sognavano i dirigenti, con il prezzo del greggio ai minimi storici – il Brent fra i 35-40 dollari al barile – per via del rallentamento della domanda cinese di greggio e, in generale, della bassa crescita globale, delle tensioni mediorientali e della deflazione proveniente dalle tecnologie shale oltre Atlantico.
Questa congiuntura – per un Paese che gas e petrolio non li estrae, ma li importa, li lavora e li trasforma – ha reso possibile il ritorno all’utile di Versalis dopo anni di buchi nell’acqua: i primi due trimestri dell’anno a risalire posizioni, per chiudere il terzo trimestre con un utile operativo di 172 milioni di euro contro la perdita di 99 milioni nello stesso periodo dell’anno precedente. È quindi il momento migliore per metterla sul mercato, perché finalmente “appetibile” per gli investitori esteri. Eni non sembra avere alcuna intenzione di fare marcia indietro e mettere lei sul piatto l’1,2 miliardi per il triennio 2016-2018. “Dobbiamo sbloccare risorse finanziarie da investire nel core business”, ha dichiarato più volte negli ultimi mesi Claudio Descalzi. Soldi che serviranno per esplorare e trivellare in vari giacimenti in giro per il mondo. Quello che però non si spiega è perché il gruppo abbia di recente dismesso il 12,5 per cento delle quote di Saipem – la società del gruppo che si occupa proprio delle infrastrutture per le perforazioni e la ricerca di idrocarburi, fondamentale per il famoso “core bussiness” all’estero – vendendole al Fondo Strategico Italiano, garantito dal capitale di Cassa Depositi e Prestiti e quindi dal risparmio postale degli italiani. Una mossa strana a detta di molti osservatori.
La paura è che, nel giro di pochi anni, la chimica italiana possa morire del tutto, con ricadute occupazionali terrificanti.
Nell’affare Eni-SK per la quota di controllo di Versalis, sono rischio 4.400 lavoratori in Italia, 1000 all’estero e oltre 2000 nell’indotto. Inoltre c’è la spinosa questione dei 250 brevetti italiani e dei 4 centri di ricerca – potrebbe passare tutto in mani estere.
La paura è molta e ha spinto centinaia di dipendenti a organizzarsi con i pullman, per venire a Milano a protestare dentro il cuore di Metanopoli – “la città del metano”, il quartiere gioiello a misura di dipendenti Eni, sognato e voluto nel 1952 dal fondatore del cane a sei zampe, Enrico Mattei. Tutte le cinque torri di rappresentanza e uffici di Eni – negli ultimi anni se ne doveva costruire una sesta che è stata bloccata da inchieste legate a strani movimenti di denaro – si trovano a poche decine di metri dai principali snodi infrastrutturali nel sud di Milano: l’Autostrada del Sole, la via Emilia, la stazione di Rogoredo, e a pochi chilometri dall’aeroporto di Linate. Una posizione anche geograficamente strategica che, nell’idea di Mattei, serviva a collocarsi come snodo fondamentale della politica industriale italiana. E che da oggi rischia di tramontare e poi morire lentamente, mentre si discute della bravura dei social media manager di Eni nell’utilizzo di Twitter.